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Arte Fiera Bologna: corpi e oggetti accolgono immagini come simboli del nostro tempo
Fiere e manifestazioni
«Cerco di capire i nodi, i temi dell’essere in vita» disse una volta Fabio Mauri, che mai nascose l’intenzione radicalmente critica della sua ricerca di artista “sperimentatore”. Ecco, è proprio questo spirito che anima le prime ore di Arte Fiera, che celebra la sua 50^ edizione con un pregevole lavoro di indagine sul passato recente e sul presente che si riflette nei corpi e negli oggetti, d’arte, che fin dalle prime ore di apertura suscitano approvazione e sorpresa.
Ed è proprio Fabio Mauri, presentato da Michela Rizzo con un un’importante quanto urgente selezione di opere, a renderci immediatamente chiaro cosa significhi, visivamente parlando, considerare corpi e oggetti come strumento di proiezione che accolgono le immagini diventando a tutti gli effetti testimoni simbolo della storia, come – direbbe e ha detto Dora Aceto – «una sorta di esperimento concreto, dimostrazione dei mutamenti del linguaggio, nell’incontro e nell’ibridazione con realtà diverse per connotazione e fini». Così inteso, l’incontro proposto nello stand, è senza dubbio qualcosa di sorprendente: a Mauri, Michela Rizzo, affianca le fotografie di Francesco Jodice e In Order of Appearance di Andrea Mastrovito, un quadrittico composto da 100 disegni a matita, che si impone come la somma visiva delle citazioni con cui l’artista ha realizzato il film I Am Not Legend.
«I commenti sono tutti positivi», ha detto in serata un collezionista al suo interlocutore telefonico. «La proposta è di grande qualità», ha detto un’altra coppia di collezionisti soddisfatta dal primo giro. L’approvazione è unanime, insieme alla sorpresa, in nome e per contro di quel fare sperimentatore che ha animato la direzione della fiera e ha dato un prezioso stimolo alle 196 gallerie partecipanti – tra cui si segnala il ritorno di Apalazzo Gallery, Laveronica, Lia Rumma, Lorenzelli Arte, Franco Noero, Ronchini, Sprovieri – che si presentano alla fiera più antica della storia italiana con proposte che si relazionano con noi, ma non si esauriscono nella relazione con noi.
Unitarie nella loro apparenza e dirette nel loro discorso, molte opere sembrano impostare un’etica differente, basata sul vedere di più, udire di più, sentire di più, recuperando i nostri sensi, anche in un tempo nichilista come il nostro, che preme l’acceleratore sull’eccesso e la sovrapproduzione, da cui consegue una costante diminuzione di acutezza della nostra esperienza sensoriale. «There is a particular difficulty when the signs don’t appear to say what the tought grasps, or the words don’t say what the thought appears to grasp» sentenzia Joseph Kosuth – in un metro per un metro che Vistamare propone insieme a un’urgente ammonizione: «Dum loquor, hora fugit. While I speack, the tima flies» (MAXIMA PROPOSITO. OVIDIO #8).
Niente di più vero, mentre noi parliamo, il tempo passa. Kosuth è proposto anche da Lia Rumma, insieme a tanti altri capolavori che portano il nome di Williman Kentridge e Vanessa Beecroft – a proposito di corpi – tra gli altri, mentre il tempo si presenta per immagine come metafora di memoria, di spazio, di trasformazione, di ricerca. Labs Contemporary Art fa in tal senso una panoramica di queste tematiche, indubbiamente attuali e sensibilmente indagate nell’arte contemporanea, con un selezione di lavori Carolina Colichio, Marco Emmanuele, Julia Huete, Giulia Marchi, Greta Schödl e Dario Picariello, con la recentissima opera – una stampa fotografiaca a contatto su seta, ottone e pagine di libro con alluminio – che titola «Non è il pianto che cambia il destino non è la paura che arresta il cammino», come a esprimere la volontà di restituire tout court l’importanza delle cose che facciamo, esaltando la necessarietà di non prevaricare la libertà altrui.
In materia di necessità, di responsabilità, con un taglio politico la galleria Laveronica propone una selezione di opere degli artisti rappresentati, tra cui Igor Grubić, Adelita Husni Bey, Daniela Ortiz, Alejandra Hernandez e Moira Ricci. Di Adelita Husni Bey si mostra invece Briganti (dettaglio abbraccio), un progetto in collaborazione con l’associazione di rugby antifascista e antirazzista “I Briganti”, mentre Ortiz racconta per immagini e matriosche la storia di Olga Benario. Il progetto di Grubić, Velvet undrground, è stato invece realizzato nel principale penitenziario croato di Lepoglava. L’artista ha lavorato direttamente con i detenuti che si sono offerti di partecipare a questo progetto attraverso interviste incentrate sui loro ricordi e desideri d’infanzia. Che tipo di giochi amavano fare da bambini? In quali eroi si identificavano? Quali caratteristiche gli piacevano e perché? Cosa immaginano di diventare da grandi?
La questione cruciale dell’identità è anche al centro del lavoro di Marta Roberti, da Sara Zanin, benintesa in termini di divenire, di incessante metamorfosi, che alla logica aristotelica la ferma e rassicurante convinzione rimbaudiana che io è un altro. Cosa vediamo negli autoritratti? C’è, sicuramente, qualcosa di più della facoltà visiva, che potrebbe il dato reale, la coscienza, l’adesione affettiva, la memoria individuale o la messa a fuco morale: tutte traiettorie, dello sguardo, che rinforzano l’ipotesi che la storia, come il mistero della vita e la vita stessa sono essi stessi corpi. Corpi rappresentati, che ci si danno per immagini.
Immagini istintivamente ricercate, come una vera e propria scrittura ritmica che non è semplice urgenza espressiva bensì una forma d’arte evoluta, come nel caso di Giuseppe Buzzotta – ben presentato dalla Galleria Massimo Ligreggi – o libere, fisiche e sperimentali, come quelle di Diego Gualandris, di cui Ada Project propone una valida selezione di lavori della serie La Guardona, così intitolata in nome della statuetta di una Madonnina, tipica di molte abitazioni, che compare negli episodi su tela che l’artista dipinge in bilico tra capricci classici e nuova immaginazione. Ci sono immagini che sfondano il contenuto, come quelle di Guilherme Almedia e immagini calcolate e bilanciate, costruite solo apparentemente attraverso un gesto distruttivo, come i Multilayer di Felix Schramm (entrambi presentati da Ribot Gallery, insieme a Stefano Perrone, Marco Reichert, e Przemek Pyszczek), che realizza questi moderni collage rompendo il livello più esterno e resistente fino a raggiungere un impianto armonico e accattivante, che permette lo svelamento della parte sottostante e che utilizza i colori delle immagini fotografiche emerse per inserire nel processo percettivo dell’immagine anche dei valori pittorici.
Franco Noero presenta Anna Boghiguian, Lothar Baumgarten, Pablo Bronstein, Tom Burr, Jason Dodge, Sam Falls, Martino Gamper, Mario Garcìa Torres, Gabriel Kuri, Robert Mapplethorpe, Hassan Sharif, Simon Starling, Henrik Olesen e Francesco Vezzoli; Francesca e Massimo Minini scelgono invece Carla Accard, Jacopo Benassi, Matthias Bitzer, Ambra Castagnetti, Simon Dybbroe Møller, Flavio Favelli, Alberto Garutti, Peter Halley, Sheila Heiks, Sabrina Mezzaqui, Giulio Paolini e Nedko Solakov.
Galleria Studio G7 si presenta con l’installazione Forget Me Not, concepita per il cinquantesimo anno della fiera, coincide con altrettanti anni di attività della galleria. Le opere di Anne e Patrick Poirer, Giulio Paolini, David Tremlett, Ulrich Erben, Franco Guerzoni, Gregorio Botta, Mariateresa Sartori, Paola De Pietri, Flavio de Marco, Marilisa Cosello, Jacopo Mazzonelli, Giulia Dall’Olio, Caterina Morigi, Daniela Comani, Davide Tranchina, Alexandar Petkov, Lorenzo Modica e Silvia Listorti creano un ponte temporale racconta una realtà coerente che si ripete, idealmente senza fine, continuando a riprendere le tematiche del contemporaneo cui è più affine.
Nel moderno Richard Saltoun presenta Sandro Chia, Mario Coppola, Atelier dell’Errore, Bice Lazzari, Eliseo Mattiacci, Gina Pane, Carol Rama, Greta Schoedl, mentre Mazzoleni celebra il traguardo storico della kermesse bolognese con un’audace proposta di capolavori del Dopoguerra e ricerche degli artisti contemporanei come Andrea Francolino e Marinella Senatore. Nello stand le opere di Carla Accardi, con Ardens di Piero Dorazio, le cui superfici sono una sintesi delle riflessioni sulle proprietà del colore e della luce, dialogano con le ricerche di David Reimondo e di Rebecca Moccia. Spazio anche ad Agostino Bonalumi con opere in cui sfuma il confine tra pittura, scultura, installazione e opera-ambiente, con superfici che si moltiplicano quasi fisicamente come in un gran teatro di forze. Galleria Vigato propone la Sfinge di Vettor Pisani, insieme a Omar Galliani, Stefano Di Stasio, Giulio Paolini, Lino Frongia e James Brown, Repetto Gallery sceglie Arnaldo Pomodoro, Fausto Melotti, Mario Sironi, Pier Paolo Calzorari e Carla Accardi tra gli altri – mentre Dep Art opta per un’importante varietà di opere in un coro di grandi voci, come Dadamiano, Valerio Adami, Salvo, Regine Schumann, Giuseppe Unici, Turi Simeti, Natale Addamiano e Gerold Miller, tra gli altri.
La proposta di Arte Fiera vince e convince, tutti, sapendo andare oltre le aspettative con un’identità libera da qualsiasi interpretazione, che sfonda le pareti del prevedibile – pur sempre in maniera equilibrata – e concretizza la persistenza nella trasmissione storica, sia per corpi o per oggetti che, accogliendo le immagini come audaci schermi, testimoniano il simbolo di una storia che abbiamo ereditato e di un presente che daremo in eredità.
Nello stand di Thomas Brambilla tra le griglie di Erik Saglia, i fiori perfetti di John Giorno, la statuaria di Lynda Benglis, le azioni di Klaus Rinke, i diamanti di John Torreano, l’audacia di Wim Delvoye il gesto pittorico di Andrea Kvas e quello di Marco Cingolani campeggia l’opera di Jack Pierson, «Spring can really hang you up the most»: ecco, allora, ad Arte Fiera e nella vita di tutti i giorni, proviamo a non interpretare, a sfondare il contenuto, a vedere cosa è e perché è, senza chiedersi cosa significhi.