The Era of Daydreaming è il tema della nuova, trentunesima, edizione di Artissima, che entra nel suo quarto decennio di attività come un acceleratore di intelligenza e cambiamento. Che fare, dunque, fin dalle prime ore di apertura? Sognare, sognare a occhi aperti! Sognare attraverso una ricercata e internazionale selezione di opere in grado di attivare speranze, emozioni e immaginari, e di forgiare il mondo che verrà, orientandolo secondo le nostre aspettative o stimolando quei ricordi che «giacciono assopiti dentro di noi per mesi e per anni, proliferando silenziosamente, finché non vengono svegliati da qualche inezia e in qualche strano modo ci accecano alla vita», come scrive W.G. Sebald in The Rings os Saturn, e come cita Neil Kidgell a proposito di Rafal Topolewski, protagonista nello stand di Alice Amati (sezione new entries). Topolewski evoca nei suoi lavori pittorici la qualità allucinatoria dei sogni e la sensazione di cose ricordate o dimenticate a metà. DI fronte a uno dei lavori, Splet, che riflette la separazione tra sogno e memoria, mi assale il ricordo della domanda di Walt Whitman – Non t’assale mai il dubbio, o sognatore, che tutto può essere velo di maya, illusione? – che qualche anno fa fa scelsi per parlare di Edson Luli, oggi in Prometegallery Ida Pisani con It takes two to know one, insieme a Filippo Berta, Binta Diaw, Zehra Dogan, Regina José Galindo, Silvia Giambrone, Matteo Mauro, Santiago Sierra e Giuseppe Stampone. Il lavoro di Luli, un neon poetico e raffinato, in un certo senso anche imperativo – senza due non si può conoscere l’uno -, trafigge di così tanta consapevolezza che, chi lo guarda scardinerà, il “come” sia possibile piuttosto che il “perché” o il “cosa” significhi.
Come Luli, che possiamo ben riconoscere tra gli artisti che oggi si dedicano concettualmente ed esteticamente al vocabolario simbolico delle attribuzioni culturali e alla sua memoria, mettendolo in moto sulla base di gesti trasformativi, anche Lotti Brockmann – che Galerie VON&VON presenta per la sezione Present/Future – appartiene alla stessa generazione e si distingue nella proposta fieristica con la serie STOLEN STATUES (LICKED), che realizza prendendo le aree bocca-naso di statue maschili e bianche popolari nello spazio pubblico e le trasforma in grandi sculture lolli-pop fatte di zucchero che possono essere leccate in mostra. Questo atto di appropriazione è un’audace sfida alle strutture di potere tradizionali e ai ruoli di genere. Offre ai visitatori l’incredibile opportunità di appropriarsi, digerire e decentralizzare i simboli maschili dell’autorità attraverso il leccare. L’atto di leccare permette metaforicamente ai partecipanti di portare le proprie storie e i propri ricordi nel discorso collettivo, facendo così luce su prospettive storiche alternative. Possiamo sognarlo? Sì. Come possiamo sognare di abbattere il mito di un’arte apolitica: se ne fanno portavoce Igor Gubric, nello stand di Laveronica, insieme – tra gli altri – ad Adelita Husny Bey, Daniela Ortiz, Moira Ricci, e Pamela Diamante che, nello stand della Galleria Gilda Lavia – con Gabriella Ciancimino, Élle de Bernardini e Carla Grunauer – riflette sulla condizione delle donne nel Sud Italia con due opere che anticipano la prossima mostra personale in galleria.
Di Pamela Diamante, la galleria, sceglie di proporre anche un’opera che funge da autoritratto, scultoreo, nella forma di una scarpa. Certo, sognando a occhi aperti, siamo legittimati a ricordare quella di Cenerentola. Eppure nessuno indosserà questa scarpa, dalla cui suola escono, graffianti, dei lunghi pettini in ferro. Non è, va detto, l’unica scarpetta non indossabile – se non nei sogni – anche nello stand di Frittelli Arte Contemporanea ce ne è una ed è di Jiri Kolar, artista e poeta multiforme, ironico e fantasioso, anche nel costante impegno civile e sociale. C’è altro? Assolutamente si, ed è Vestido di Susy Gómez, nello stand di Giorgio Persano, dinnanzi a due – grandissimi – acrilici su tela di Herbert Brandl, avvolti nel sottofondo musicale proveniente da alcune casse di risonanza che appartengono all’installazione di Alessandro Sciaraffa, Le ombre del mare. L’elegante vestito in alluminio, fluttuante e immobile di Gómez ha la stoffa di un’armatura che affondando le sue radici nella umana e fin troppo umana dicotomia tra presenza e assenza, ci stimola a chiederci, rispetto a ciò che sogniamo (e dunque desideriamo), quali siano le possibilità del corpo e che cosa avvenga nel corpo o, ancora, quali siano le condizioni perché ci sia un evento di corpo. Si apre lo spazio per interrogare un corpo che non è inerte, un corpo perso in un dinamismo, e questo dinamismo del corpo non ridotto al suo involucro immaginario, è quel che chiamiamo pulsione. Dove? Nello stand di Ada Project, che per la prima volta allarga il suo spazio e decide di portare più artisti: Lou Masduraud, Andrea Mauti, Anna Perach e Alina Perez.
A proposito di corpo, Malin Bülow propone nello stand di Piero Atchugarry Gallery, la performance En Caul, ponendo l’attenzione sull’equivoco del corpo, dei suoi confini e delle sue norme. Bülow incapsula la figura umana all’interno di una membrana elastica, tesa e semitrasparente, realizzata in lycra, che lascia immaginare ogni nuova forma come uno stato di transizione, simile a un bozzolo, una fase di riposo prima della completa metamorfosi. Premendo vetrini da laboratorio sulla propria pelle, invece, Giuseppe Penone mappa tutto il proprio corpo, documentando il processo attraverso 607 scatti che, assemblati, diventano un lavoro fotografico, Svolgere la propria pelle (1970) esposto da Richard Saltoun accanto a un altro suo lavoro del 1997 risalente al periodo in cui l’artista realizza le Propagazioni. Il punto di partenza è l’impronta di un polpastrello intinto nell’inchiostro tipografico e premuto al centro di un foglio di carta che poi, appunto si propaga: l’atto del disegno mette in moto la propagazione dell’impronta delle dita, Penone circonda le linee dei polpastrelli con una forma chiusa che, ripetuta, si ingrandisce gradualmente. Nello stand la galleria propone anche una selezione di opere di Atelier dell’Errore, Bice Lazzari, Aldo Rossi, Greta Schödl, mentre per la sezione Back to the Future sceglie Carmen Dionyse. Penone scrive «La pelle, come l’occhio, è un elemento di confine, il punto estremo in grado di dividerci e separarci da ciò che ci circonda, il punto estremo in grado di avvolgere fisicamente estensioni enormi… È il punto che mi permette ancora e dopo tutto di riconoscermi». Ma che cosa è il riconoscimento? Una constatazione dell’identità? Si, assolutamente. È così che riconosciamo i grandi nomi che popolano la fiera: Peter Halley e Jacopo Benassi, che presentano Massimo e Francesca Minini in buona compagnia di Haris Epaminonda, Ambra Castagnetti e Francesco Simeti; Lynda Benglys, John Giorno e Maggi Hambling che sceglie – tra gli altri – Thomas Brambilla Gallery; Regine Schumann e Gerold Miller, per esempio, proposti da Dep Art; Daniel Buren di cui Tucci Russo mostra Pyramidal, haut-relief; Monica Bonvicini e Gabrielle Goliath presenti nello stand di Raffaella Cortese; Jacopo Mazzonelli da G7 Studio con uno sviluppo scultoreo della sua ricerca; e ancora Carla Accardi, Capogrossi, Maria Lai e Arcangelo Sassolino che non mancano da Repetto Gallery.
Ma il riconoscimento è anche un’adesione, una spinta emotiva verso qualcosa che in un lampo corrisponde a evidenza, a verità. Ribot Gallery, per esempio, sceglie di far dialogare Marco Reichert, che costruisce le sue macchine per dipingere, che hanno una funzione simile a quella di un grande plotter e dipingono segni decisi con colori a olio su tele sciolte e, sebbene siano digitali, e Harrison Pearce, che esamina la dualità mente-corpo, che è stata un problema persistente della moderna filosofia della mente. La narrazione che si viene a creare tra le tele “imperfette” di Reichert – imperfette perché ci sono imperfezioni nel modo in cui la vernice viene applicata alla tela, simili all’errore umano quando si dipinge a mano – e le sculture minimali, eleganti e di forma industriale di Pearce è sicuramente tra i più interessanti, parimenti a quella che Matteo Consonni crea nello stand di Madragoa tra Debashis Paul e Belén Uriel, quella proposta da LABS di Bologna con Cécile Beau e Charlotte Charbonnel, o quella che anima lo stand di Michela Rizzo, con Hamish Fulton, Michael Hoepfner e Matthew Attard.
Sicuramente sarà un caso, ma se l’invito a sognare ad occhi aperti è valido, allora possiamo concederci il lusso di trovare sempre nuove connessioni. Per esempio: Franco Noero, all’ingresso della fiera, pone immediatamente di fronte allo sguardo del pubblico un’opera di Martino Gamper, mentre al capo opposto del magico Oval, Mazzoleni sceglie i lavori di Salvatore Astore, Iran do Espírito Santo, Andrea Francolino, Melissa McGill, Rebecca Moccia, David Reimondo, Marinella Senatore e Massimo Vitali che più immergono nell’intersezione tra immaginazione e realtà, tra lo spazio cosmico e universale e quello terreno. Quale è questa connessione? Beh, l’opera di Gamper ricorda una seduta su cui potremmo sederci per accogliere, profondamente, l’io: quell’io che, come ci insegna Marinella Senatore, contiene moltitudine. Possiamo riconoscerlo? Freud direbbe che «L’interpretazione dei sogni è la via regia per la conoscenza dell’inconscio», e quindi, sogniamo!
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