La Biennale di Gerusalemme si sposta in Piemonte: intervista a Ram Ozeri

di - 11 Novembre 2023

Nello scorso articolo del ciclo d’interviste Halon (finestra), Tania Coen-Uzzielli, direttrice del Museo di Tel Aviv ha illustrato i punti di forza e le criticità del sistema dell’arte israeliana. In questa intervista invece Ram (Rami) Ozeri, fondatore e direttore della Biennale di Arte Contemporanea Ebraica di Gerusalemme, ci illustra la storia della Biennale dalla sua nascita fino a oggi.

La Sesta Edizione della Biennale Tzon Barzel (traduzione: Iron Flock), che avrebbe dovuto iniziare il 9 novembre è stata posticipata a causa della guerra in corso per la primavera del 2024. Malgrado ciò si è deciso che verranno inaugurate tre delle 35 esposizioni in diverse città sparse per il mondo nel corso del mese di novembre. Una di queste avrà luogo in Italia a Casale Monferrato, mentre le altre si terranno a New York e Buenos Aires.

Da sinistra verso destra Rami Ozeri e Angelica Berrie, credit Daniel Rachamim

Come mai nonostante lo scoppio della guerra avete deciso di inaugurare alcune esposizioni della Sesta Edizione della Biennale?

«Inizialmente volevamo inaugurare tutto nei tempi programmati. Quando abbiamo iniziato a sentire le sirene anche qua a Gerusalemme abbiamo realizzato che sarebbe stato impossibile. Abbiamo così deciso di posticipare il tutto per la primavera del 2024. Volevamo comunque lanciare un forte messaggio di speranza e non dover semplicemente comunicare che la Biennale sarebbe stata posticipata. Abbiamo così deciso di inaugurare presso i Musei Ebraici di Casale Monferrato una delle esposizioni. Il 12 novembre alle 11:30 verrà aperta al pubblico fino al 3 dicembre la collettiva DIETRO LA MASCHERA curata da Ermanno Tedeschi e Vera Pilpoul. La collettiva con una commistione di artisti israeliani e italiani esplora differenti interpretazioni del Libro di Esther, uno dei 24 libri della Bibbia ebraica».

Per quale motivo ha sentito la necessità di fondare una Biennale di Arte Contemporanea Ebraica?

«Fino all’età di 30 anni ho fatto tutto ciò che gli altri si aspettavano da me. Ho preso la doppia laurea in economia e filosofia e poi ho lavorato come economista presso l’autorità dell’Antitrust israeliana. All’età di 30 anni mi sono fatto coraggio e mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Bezalel a Gerusalemme e lì ho capito che in Israele c’è una sorta di “problema” irrisolto legato alla cultura ebraica nel settore artistico».

Ovvero?

«Mi resi conto che ogni volta che presentavo in classe lavori con riferimenti alla cultura ebraica i miei colleghi ritenevano che non fossero rilevanti rispetto al mondo dell’arte contemporanea. Tutto ciò mi ha fatto riflettere e ho iniziato così a cercare artisti nelle cui opere fossero presenti questi riferimenti. Mi ricordo che ne trovai molti che però si sentivano esclusi dal sistema dell’arte israeliana in quanto non venivano presi in considerazione dalle gallerie del paese. Per assurdo le loro opere venivano accettate in città come Singapore ma non a Tel Aviv. Così ho capito di voler creare una piattaforma che accogliesse gli artisti che usavano questo mezzo di espressione».

Credit Daniel Rachamim Jerusalem Biennale 2019

Perché proprio una biennale e non una galleria?

«Inizialmente volevo infatti aprire una galleria. Nel 2010 però sono andato alla Biennale di Berlino e ho iniziato così ad interessarmi a questo modello. Per l’obbiettivo che mi ero prefissato la Biennale era il veicolo perfetto, perché non deve sostenere i costi di una galleria ed ha un effetto continuo nel tempo, a differenza di una singola esposizione. Inoltre, sia a me che al mio team è sembrato subito evidente che questa Biennale dovesse avere sede a Gerusalemme. Così nel 2013 ne abbiamo inaugurato la Prima Edizione».

Come ha reagito la critica alla nascita di una Biennale di Arte Contemporanea Ebraica?

«Quando abbiamo inaugurato la Prima Edizione abbiamo ricevuto tantissime critiche e non solo dal sistema dell’arte. La sinistra israeliana era in disaccordo col fatto che la Biennale trattasse solo arte ebraica. Invece la destra israeliana, che si riconosce in un ebraismo più ortodosso, era in disaccordo con molte rappresentazioni e interpretazioni delle opere. Questa iniziativa al contrario ha dato voce a molti artisti lasciandoli liberi di elaborare la loro idea di ebraismo e cultura ebraica. Il nostro obbiettivo è quello di poter dare a chiunque lo voglia, ebrei e non ebrei, la possibilità di esprimersi attraverso la cultura ebraica».

Credit Daniel Rachamim Jerusalem Biennale 2019

Come si relaziona la Biennale di arte contemporanea ebraica con la città di Gerusalemme, città oggi considerata irrinunciabile anche per altre culture?

«Fino ad ora abbiamo trattato arte contemporanea ebraica, però per il futuro ci piacerebbe che la Biennale si aprisse ad altre culture e tradizioni. La ragione per cui non l’abbiamo ancora fatto è perché non abbiamo ancora trovato i partners giusti. In questi ultimi anni mi sto attivamente impegnando a cercare dei rappresentanti adatti che possano entrare nel Board. (Aggiunge ridendo: anzi se potessi scriverlo nell’articolo che stiamo cercando una figura competente magari ci aiuta a trovarla più in fretta)».

Immagino che lavorare sia con artisti ebrei ultraortodossi che con artisti che hanno invece un’idea più secolare dell’ebraismo, sia una sfida non da poco, che soluzioni avete trovato per gestire questa problematica?

«Chi non conosce l’ebraismo spesso commette l’errore di considerarlo solamente una religione quando in realtà è molto di più, l’ebraismo è una cultura, una nazionalità. Quindi quando si parla di arte ed ebraismo si può lavorare su più dimensioni. Per questo motivo abbiamo deciso di non avere un Chief Curator, abbiamo invece una commissione che vuole essere portavoce di queste numerose dimensioni dell’ebraismo».

Credit Daniel Rachamim Jerusalem Biennale 2019

Come convivono questi artisti assieme?

«La Biennale di Gerusalemme non è mai concentrata tutta nello stesso luogo, ma bensì è suddivisa in più spazi e per questa Edizione ne avevamo previsti venti. È stata una scelta obbligata, non avremmo potuto infatti raccogliere tutti gli artisti nello stesso sito perché si sarebbero esclusi l’un l’altro; artisti con ideali così diversi non avrebbero potuto esporre nello stesso luogo. Durante la preparazione della Biennale gli artisti e i curatori hanno la possibilità di scegliere tra i luoghi che sentono più affini a loro.

Il tema dell’Edizione di quest’anno si chiama Tzon Barzel, Iron Flock, (Gregge di Acciaio), come mai? E cosa significa?

«Iron Flock, (traslitterato: Tzon Barzel) è un modo di dire diventato molto comune nell’ebraico moderno e si riferisce a qualcosa o qualcuno di così importante o influente con cui tutti in qualche modo ci ritroviamo ad avere a che fare. L’israeliano medio non sa che questa espressione viene dal Talmud, in particolare viene usata nel trattato sul tema del matrimonio, che nella tradizione ebraica è stipulato con un contratto. Iron flock fa riferimento ai beni che il marito deve versare alla moglie a sua garanzia in caso di divorzio (nell’ebraismo il matrimonio come qualsiasi contratto può essere sciolto). Questa edizione, infatti, vuole essere la Biennale delle donne a cui si è voluto appunto lasciare più spazio. Personalmente penso che la tensione tra questi due significati (quello dell’ebraico moderno da una parte e quello della norma talmudica dall’altra) permetta molteplici interpretazioni incredibilmente interessanti.

La Biennale di arte contemporanea di Gerusalemme nasce da una mancanza del sistema dell’arte israeliano che è stato affrontato con il guizzo creativo tipico degli israeliani cui fa riferimento la Direttrice del museo di Tel Aviv nello scorso articolo. Con la speranza che la situazione in Medio Oriente si riappacifichi attendiamo pazientemente di poter visitare la Biennale di Gerusalemme a Gerusalemme».

Daniel Rachamim Jerusalem Biennale 2019

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