Non solo il MSFAU, che ospita la main exhibition della 16ma Biennale, non solo l’Istanbul Modern, che sta riprendendo forma in un nuovo edificio sul Bosforo e che attualmente è ospitato in un piccolo edificio a pochi metri dal Museo Pera, ma anche il nuovo Arter.
In realtà, Arter non è proprio nuovo, nel senso che esiste dal 2010, si trovava a sua volta in un piccolo edificio su Istiklal Caddesi – la trafficatissima via pedonale di Istanbul che parte da piazza Taksim – ed è poi finanziato dalla Vehbi Koç Foundation, lo stesso main sponsor della Biennale di Istanbul. Già, perché in Turchia non esiste un sostegno pubblico per le arti contemporanee e la partita si gioca tra investitori e aziende.
Anche Arter, come il MSFAU, sembra essere stato costruito un po’ in fretta ma con uno charme maggiore del suo collega affacciato sullo stretto. Benvenuti, allora, in questo parallelepipedo di cinque piani che sembra voler imitare un poco il Broad di Los Angeles in zona Dolapdere, quartiere popolare a cui si accede scendendo la collina di Beyoğlu.
L’edificio, progettato dallo studio londinese Grimshaw e inaugurato la scorsa settimana ospita, oltre alla sua collezione permanente a rotazione, anche una serie di mostre personali e tematiche e, con 18mila metri quadrati di spazio espositivo, ha a disposizione anche aree education, una biblioteca, un laboratorio di conservazione e restauro, una libreria e una immancabile caffetteria con vista sul circondario.
Lo statement della nuova istituzione parla di «valorizzazione e accoglienza di idee, teorie e tendenze inedite dell’arte contemporanea, abbracciando tutti i formati che possono essere considerati non convenzionali», con una particolare attenzione alla promozione dell’arte Turca e del Medio Oriente in genere, «con l’intenzione di esplorare le convergenze e le disparità tra forme, dichiarazioni e contenuti prodotti qui e altrove».
Per iniziare, Arter mette sul piatto ben sette mostre: i progetti personali di Rosa Barba e Celeste Boursier-Mougenot, le retrospettive degli artisti turchi Ayşe Erkmen, Inci Furni e Altan Gürman e le collettive “What time is it?”, che raccoglie parte della collezione, e “Words are very unnecessary”.
Una vera e propria prova di forza che, nonostante le buone intenzioni, non coinvolge particolarmente. Ottimi gli allestimenti, ottimi gli apparati teorici, chiare le didascalie e le mappe per orientarsi tra una selva di opere che sembra quasi di essere in uno stand fieristico. Eppure, qualcosa non torna. Probabilmente è una pretesa di forza che si sposa chiaramente con la pratica, un’attitudine muscolare che tradisce invece un andamento in bilico. Certo, tutto questo spazio in qualche modo andava – e soprattutto andrà – riempito.
E allora, perché non concepire, magari, una grande retrospettiva? Perché non ingegnarsi in un discorso più organico anziché puntare su tante proposte estremamente differenti?
Se sulla carta questa prima prova del nuovo Arter vuole raccontare il rapporto Turchia-mondo, tradizione-innovazione, locale-globale, sono lodevoli le buone intenzioni. Ma l’onda d’urto che ci che ci si aspetterebbe da un museo tirato su con cotanta spettacolarità architettonica è un’altra cosa.
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