Nel “Settimo Continente” messo in scena dagli artisti invitati da Nicolas Bourriaud alla Biennale di Istanbul del 2019, si racconta in particolar modo dei temi legati al concetto di antropocene, ovvero l’attuale epoca in cui umano e non-umano stanno facendo i conti con la propria convivenza, non particolarmente felice. Ecco allora che, attraverso le opere, si svelano i risultati di una produzione intensiva che ha stravolto flora e fauna di intere aree, che ha portato all’estinzione di animali e tradizioni culturali, umane e popolari ad appannaggio di un mondo in cui il dualismo “uso e consumo” continua a farla da padrone, nonostante gli avvertimenti – non tanto da parte degli esseri umani – dello stesso globo terrestre: surriscaldato, sfinito, inquinato. La sede principale della Biennale di Istanbul, quest’anno, è al MSFAU, acronimo del nuovissimo Istanbul Painting and Sculpture Museum, appartenente all’istituzione del Mimar Sinan Fine Arts University.
L’edificio, un vasto cubo forato su ogni lato, di quattro piani, sorge affacciato all’imbocco dello Stretto del Bosforo, a pochi passi da quella che era l’Istanbul Modern, museo che attualmente è in ricostruzione, e nel frattempo si è temporaneamente spostato verso l’area di Galata.
Qui, a dir la verità , tutto è un cantiere e, osservando lo skyline della città , oltre la Biennale e le vetrate dello MSFAU, è chiarissima la sindrome edilizia di Istanbul, il suo continuo riprogettarsi spesso a scapito della qualità . Un sintomo dell’antropocene, quello di un continuo fagocitarsi nel circolo vizioso della produzione-consumo, che qui è decisamente site specific. E così, questo MSFAU, è ben lontano dall’essere un edificio iconico; appare piuttosto finito in tutta fretta, con dettagli architettonici e materiali di realizzazione trascurabili. Insomma, non assomiglia di certo alla Tate, al Whitney o al Pompidou, anche se gli spazi ampi e la sua semplicità sono invidiabili.
Dopo l’anteprima da Büyükada, ora iniziamo il giro nella main venue.
Al primo piano dell’MSFAU, ad aprire le danze del “Settimo Continente” della Biennale di Istanbul è la giovane Dora Budor, nata a Zagabria nel 1984 e di base a New York. In una stanza poco illuminata stazionano tre grandi “acquari”, che però non contengono né acqua né forme di vita: alle pareti di vetro si deposita, invece, sbuffo dopo sbuffo, del pigmento colorato. Alle base dei parallelepipedi dei piccoli coni, vulcanetti creati da continui getti di aria compressa che saturano l’atmosfera della struttura e creano un paesaggio dantesco e desertico in miniatura, minaccioso e inquinato. Per raccontare attraverso splendide sfumature azzurre, gialle e rosse della polvere, degli idrocarburi, del PM10 che ricoprono non solo megalopoli da un lato all’altro del mondo ma anche la nostra “evolutissima” Pianura Padana.
Tecnicamente affascinanti, realizzati a penna bic nera su tela, i vasti paesaggi di copertoni del turco Deniz Aktaş (1987), ispirati al The wreck of hope di Friedrich, mentre il collettivo dei Feral Atlas, che negli anni ha unito in collaborazione più di 100 tra scienziati, artisti e umanisti, ha tre grandi sale in cui si indagano, tra video, disegni, fotografie e testi, i processi dell’antropocene, ovvero cosa accade con le culture intensive, con l’allevamento in batteria, con l’estrazione incontrollata di minerali e combustibili fossili.
Davvero divertente, oltre che interessante, la catalogazione di Suzanne Treister (1958) che negli anni ha usato vari pseudonimi per raccontare gli effetti psicotropi di una vastissima varietà di vegetali – dalla cannabis al papavero, fino alla belladonna, solo per dirne alcuni – e la loro correlazione alla vita, alle scienze, all’arte e, qui viene il bello, agli high-frequency movers of capital.
Inquietanti i manichini-soldati-robot capovolti e vibranti di Johannes Büttner, così come nella sua semplicità turba la sala dedicata all’opera di Ozan Atalan. L’artista turco, con soli due video e lo scheletro di un bufalo d’acqua (sarà solo l’impressione ma sembra emanare odore d’ossa), racconta di come anche questi grandi mammiferi stanno scomparendo nell’area a nord di Istanbul, a causa dell’arrivo del nuovo e immenso aeroporto della capitale turca che, entrato già in funzione insieme ad altre infrastrutture nell’area, nei prossimi mesi porterà alla chiusura definitiva degli scali di Atatürk e Sabiha Gokcha.
It’s a small world è il titolo del progetto e della sala dedicata a Simon Fujiwara (USA, 1984) che ha scovato una quantità considerevole di icone trash nei rifiuti di Istanbul, dai volti di Bart Simpson alle sagome della Pantera Rosa, per costruire altarini che mimano un futuro a metà tra il fitness center e l’ospedaliero: mancano solo le auto volanti et voilà , The Jackson (o Futurama), e la vita del futuro è servita!
Pit stop all’MSFAU: tutto oro nella Biennale di Istanbul? Macché. Tra troppi video non sempre così calzanti, non calzano a pennello nemmeno le pitture dedicate al male gaze di Ambera Wellmann. Tra tripudi di carni femminili rosee e squartate si poteva trovare di meglio! E pure l’affascinante (solo a livello visivo) sala dedicata ai collant cuciti con la tinta della pelle delle donne del Sudafrica, con attributi femminili annessi, realizzati con due punti di cucito in più, di Turiya Magadlela lascia perplessi per la sua didascalità . Idem per i decori turchi realizzati con petali di tulipano dell’olandese Jennifer Tee: indicano un crossover di appartenenze e commistioni culturali. Preciso.
Un video, invece, di una semplicità disarmante e di una potenza fuori dall’ordinario è al secondo piano. Il brasiliano Jonathas de Andrade (1982) racconta di un rituale in una remota zona a nord del Paese Latino. Qui, i pescatori, dopo aver tirato in barca la preda, ingaggiano una strana performance con il pesce malcapitato: lo cullano, lo accarezzano, lo tengono poggiato al cuore e tra le mani in un atto d’amore e gratitudine. Impossibile negare che vedere queste grandi carpe che esalano l’ultimo respiro tra rumorosi colpi di coda e boccheggi nelle braccia dei loro carnefici fa uno strano effetto.
Eppure questo non è antropocene: è storia, è cultura, antopologia; è sussistenza naturale, altro che i campi coltivati e i bovini nelle stalle dell’Ohio, il granaio degli Stati Uniti. Un semplice video che ha a che fare anche con una riflessione sul colonialismo attuale, sul suo apparire quasi dolce per portare a compimento il proprio piano di soffocamento dell’altro.
Non delude, salendo al terzo piano, la sala dedicata a Eva Kot’átková e alla sua “sartoria” per gli esseri di domani: giganti con tentacoli che spuntano da colli di camicie e dal ventre, abiti taylor made per bambini-sirena in una messa in scena poetica e curatissima tra fili, stoffe, forbici, cartamodelli e protesi. All’ultimo piano, dopo oltre tre ore di visita, un’altra certezza, anche se, pure questa in video: Mika Rottenberg. Il suo Spaghetti Blockchain tra gelatine, perle, sale, tinture per capelli e i vocalizzi delle donne Tuvan della Siberia ci mette di fronte, in maniera ciclopicamente colorata al nostro essere vittime e sfruttatori del sistema post-capitalistico globale.
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