Desert X ad Al ‘Ulà, più che una mostra. E una riflessione

di - 5 Febbraio 2020

Delle polemiche che hanno accompagnato Desert X, la biennale che ospita opere commissionate per il deserto, che quest’anno per la prima volta si svolge anche nell’area naturale di Al ‘Ulà, un’ora di volo a nord di Jeddah, vi abbiamo raccontato nei giorni che hanno preceduto l’opening, lo scorso 30 gennaio.

Oggi, però, vi raccontiamo cosa realmente abbiamo visto e sentito a Desert X Al ‘Ulà, in poche parole una mostra ambientale realizzata con 14 interventi site specific raccolti in una minuscola vallata del deserto saudita circondata da alte rocce calcaree scavate dal vento, a due passi dal sito archeologico (patrimonio UNESCO) di Hegra che è stato definito la “Petra d’Arabia”. E a ragion veduta, perché i creatori di Petra sono lo stesso ceppo della popolazione dei Nabatei e Thamudeni, i pre-arabi, che qui scolpirono le rocce come in Giordania, ma che avevano un altro Profeta, chiamato Salih, maldetto dagli arabi perché disobbedì ad Allah. Una storia meravigliosa e mistica, che però non possiamo raccontarvi in questa sede.

Desert X ad Al ‘Ulà

Come ben si sa lo spazio è un’arma a doppio taglio, e lo spazio di Al ‘Ulà è ancora più affilato. Come far risaltare opere in uno scenario lunare, surreale, meraviglioso e cangiante come questo?

Le curatrici Raceme Farsi e Aya Alireza con Neville Wakefield, direttore artistico della manifestazione, fondata nel 2015 e le cui prime edizioni si sono svolte nel 2017 e 2019, ci sono pressoché riusciti, selezionando una serie di artisti che – salvo alcune eccezioni – hanno installato progetti-oggetti perfetti.

La sostenibilità dell’operazione? Diciamo da subito che è meglio pensare all’effetto “wow” e “cool”, perché trasportare nel cuore del deserto chilometri di tubi di plastica nera, container alimentari (di plastica), strutture in fibra di carbonio e piantare nel terreno sculture di metallo che permettono di dondolarsi quasi a strapiombo sulla roccia (l’installazione dei Superflex, in versione ridotta rispetto alla grandiosità della struttura allestita alla Turbine Hall della Tate londinese, ma qui la meraviglia è vederla incastonata nelle cavità di queste perle di sasso), parrebbe poco sostenibile anche a un bambino.

Superflex, One Two Three Swing! Installation view at Desert
X AlUla, photo Lance Gerber, courtesy the artist, RCU and
Desert X

Ma anche il progetto di Desert X ad Al ‘Ula rappresenta la volontà dell’Arabia Saudita di aprirsi al mondo di oggi attraverso il più glamour e redditizio business: quello del sistema culturale.

«Dobbiamo interpretare il passato attraverso ogni alfabeto dell’arte. Vogliamo posizione Al ‘Ulà come uno dei nodi culturali più caldi del contemporaneo, pensando al futuro. Desert X Al ‘Ulà è differente da qualsiasi esperienza dell’arte di sempre, e questo ci sembra il modo più bello per connettere e apprezzare questo territorio con il presente», hanno dichiarato i curatori, in occasione dell’apertura nel deserto.

Aggiungendo anche che trattasi di un appuntamento per rimarcare la tutela e l’importanza di questo sito meraviglioso, di un modo per “connettere umanità” e di sentirsi uniti.

Decisamente un trionfo di positività, come non poteva essere altrimenti dopo le accuse e le prese di posizione da parte di diversa stampa statunitense, partendo dal riciclo di denaro alla chiusura dei corridoi umanitari per aiutare lo Yemen sfinito da anni Guerra Civile.

Gli artisti di Desert X Al ‘Ula

Iniziamo il giro in questo luogo magico da A concise passage di Rashed AlShashai, una grande piramide composta da grandi scatole di plastica blu, per il trasporto alimentare, che al centro porta una ferita color magenta: se attraversata la scultura rimanda, anche con il solo semplice calpestio, l’eco dei luoghi sterminati. Per l’artista si tratta di una riflessione sull’economia del luogo, sullo scambio tra quel che Al ‘Ulà offre e su quello che importa.

Rashed AlShashai, A Concise Passage, installation view at
Desert X AlUla, photo Lance Gerber, courtesy the artist, RCU
and Desert X

Gisela Colon, artista di origine portoricana di casa a Los Angeles, ha invece installato The future is now una grande stele in fibra di carbonio che sembra davvero essere un oggetto alieno. E lo è – spiega l’artista – dicendo che per questa forma si è ispirata ai Dolmen e agli oggetti più arcaici, dalla punta delle lance agli utensili per scavare la terra, ripensati per in un futuro che è già oggi. Necessario per ripartire, ma senza dimenticare l’importanza della storia.

Gisela Colon, The Future is Now, installation view at Desert
X AlUla, photo by Lance Gerber, courtesy the artist, RCU and
Desert X

Ancora più ambientale, ma non mimetico, l’intervento di Mohamed Ahmed Ibrahim, Falling Stones Garden: in una incantevole radura di sassi neri l’artista ne ha dipinti diversi, di colori brillanti, dall’arancione al rosso, al verde al celeste. Perché il deserto non è solo nero e giallo, o rosso e grigio: il deserto è luce, e la luce ha ogni colore dello spettro.

Mohammed Ahmed Ibrahim, Falling Stones Garden,
installation view at Desert X AlUla, photo by Lance Gerber,
courtesy the artist and Lawrie Shabibi, RCU and Desert X
Mohammed Ahmed Ibrahim, Falling Stones Garden,
installation view at Desert X AlUla, photo by Lance Gerber,
courtesy the artist and Lawrie Shabibi, RCU and Desert X

Poetico Muhannad Shono (di cui vi abbiamo raccontato anche in occasione di Artissima a Torino), che con The lost path riflette sulle ramificazioni della vita, partendo da un tubo di plastica nera a cui, metro dopo metro, se ne vanno a sommare centinaia che, raggiunto il culmine, tornano a diramarsi più sottili e a incunearsi nelle rocce. Ma perché anziché la plastica, per questo luogo che è un incanto, non sono stati scelti – per esempio – materiali sostenibili?

Muhannad Shono, The Lost Path, installation view at Desert
X AlUla, photo Lance Gerber, courtesy the artist, RCU and
Desert X

Infine il vero e proprio gioco di Manal AlDowayan, Now you see me, now you don’t. Si tratta di una serie di tappeti elastici che anziché essere sospesi sono infilati nel terreno. Se fossero stati trasparenti avrebbero creato un effetto mimetico incredibile, una vera visione surreale: chi è mai riuscito, infatti, a rimbalzare sulla sabbia? Ci accontentiamo, in questo caso, di sapere che la sabbia scavata – una volta terminata Desert X – sarà rimessa al suo posto. Ammesso che non ci torni prima, da sola.

Manal AlDowayan, Now You See Me, Now You Don’t,
installation view at Desert X AlUla, photo by Lance Gerber,
courtesy the artist, RCU and Desert X

Al ‘Ulà dopo Desert X

Insomma, se il colpo d’occhio è fantasmagorico, grazie all’ambiente circostante, basta riflettere un poco sulle parole degli organizzatori talvolta un po’ sabbiose seppur poetiche, per capire che anche Desert X Al ‘Ulà sia una sorta di un anticipo di emancipazione fashion dell’Arabia Saudita, stavolta da ottenere tramite uno scambio con la più trendy delle manifestazioni del contemporaneo, arrivata direttamente dalla California.

Speriamo vivamente (ingenuamente, perché si sa bene come vanno queste cose), che Desert X nella sperduta Al ‘Ulà (che però ha un aeroporto a circa 30 chilometri) non sia semplicemente la pietra miliare della colonizzare del Paese saudita come nuovo parco gioco per ricchi globali. Ma questa speranza forse è solo nostra. Di noi, europei provati dalla condizione perenne di svendita di patrimoni e invasioni turistiche al limite delle antiche dominazioni.

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Tag: Al 'Ulà Aya Alireza desert x Desert X Al 'Ulà Gisela Colon Manal AlDowayan Mohamed Ahmed Ibrahim Muhannad Shono Neville Wakefield Raceme Farsi Rashed AlShashai Superflex

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