La nuovissima biennale d’arte Desert X, che inaugurò la sua prima edizione nel 2017, nella Coachella Valley, in California, suscita perplessità per la scelta della città di AlUla, in Arabia Saudita, come destinazione futura. La biennale, organizzata dal direttore artistico Neville Wakefield e curata da Aya Alireza e Raneem Farsi, si afferma come la prima del suo genere in Arabia Saudita. Impossibile negare che alcune perplessità sorgono spontanee. Ricordiamo, su questo tema, il caso del paventato ingresso di rappresentanti dell’Arabia Saudita nel cda della Scala di Milano, che scatenò un vasto movimento di protesta.
Il disaccordo emerge anzitutto dal fatto che Desert X aveva collaborato in passato con la RCU – Royal Commission of AlUla, ente governativo presieduto dal principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Già, l’acquirente misterioso del Salvator Mundi, che sta provando a ripulire l’immagine del suo Paese. L’annuncio della collaborazione fra Biennale e regno saudita è stato inoltre comunicato quasi in concomitanza con l’anniversario dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, probabilmente commissionato dallo stesso Salman.
Le numerose questioni controverse hanno quindi portato l’artista Ed Ruscha insieme allo storico dell’arte e curatore Yael Lipschutz e al filantropo Tristan Milanovich ad abbandonare il proprio ruolo all’interno della Biennale, dichiarando di non sentire più alcuna appartenenza ai valori umanitari di Desert X AlUla.
L’episodio ricorda effettivamente quello della biennale Manifesta del 2013 che scelse come meta San Pietroburgo proprio mentre la Russia emanava una legge contro la «propaganda omosessuale», sollevando quindi numerose controversie. L’artista e curatrice irlandese Noel Kelly espresse il suo dissenso in una petizione di boicottaggio, verso la quale la biennale rispose: «Il carattere nomade di Manifesta mira a stabilire un dialogo più stretto tra le culture, all’interno dei più ampi campi internazionali. In linea di principio, Manifesta non può e non deve solo esibirsi nel “rifugio sicuro” dell’Occidente o dell’ex Ovest. Ciò comporta inevitabilmente un dialogo con coloro con cui potremmo non essere d’accordo».
Analoga a quella di Manifesta è la risposta degli organizzatori di Desert X AlUla. Il co-curatore Raneem Farsi ha dichiarato che «Gli artisti sono al centro di questa mostra concepita per favorire lo scambio artistico e il dialogo attraverso i continenti. La diversità di sfondi, concetti e temi presenti in questa mostra afferma il potere dell’arte nel creare cultura e scambio oltre i confini geografici. Stiamo lavorando verso un futuro più inclusivo attraverso l’arte».
Tuttavia, come giustamente fa notare Lipschutz, «Far finta che si tratti di una sorta di dialogo quando ricevi denaro dalla famiglia reale saudita – non si tratta di dialogo tra artisti, ma di stipulare un accordo con un governo nazionale che ha commesso un orribile genocidio nello Yemen, e cioè un paese completamente antidemocratico e con un record spaventoso di discriminazione nei confronti della comunità LGBTQ».
Lipschutz dimostra quindi quanto sia discutibile la volontà di creare inclusività attraverso un progetto finanziato proprio nel momento in cui l’Arabia Saudita sta cercando di presentare sulla scena internazionale un’immagine di se più accogliente.
Secondo i curatori, tuttavia, da parte degli artisti non mancava l’entusiasmo per la mostra. «La voce comune tra tutti gli artisti con cui ho lavorato è stata: “Se non dai alle persone l’opportunità di cambiare il loro cuore e la loro mente e impegnarsi con culture esterne, allora fai parte del problema, non parte della soluzione», sostiene nuovamente Farsi.
Tutte queste dichiarazioni, seppur colme di propositi, suscitano non pochi dubbi sulla reale possibilità di vedere una biennale equa, realmente rappresentativa e libera da censure e tokenismi, a fronte della difficoltà di raggiungere un tale obbiettivo perfino nei paesi occidentali, comunemente considerati i più inclusivi da questo punto di vista. Staremo a vedere, con occhio piuttosto critico, in che modo si muoverà l’audace biennale nel tessuto politico e sociale saudita.
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Si può comprendere che la protesta di Ruscha e gli altri, di non partecipare, sia più che altro dovuta alla paura: ma gli artisti dovrebbero avere il coraggio di portare il proprio contributo proprio dove ce n'è più bisogno, in quei paesi con criticità.