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La 4^ edizione di BOOMing Contemorary Art Show è ADESSO
Fiere e manifestazioni
«La calma è la virtù dei morti» ha detto forte e chiaro Simona Gavioli, Direttrice di BOOMing Contemorary Art Show, presentando alla stampa la nuova edizione costruita – con tante novità e altrettante conferme – nel nome dell’ADESSO, ovvero di quell’urgenza non più rimandabile. Quattro saranno le sezioni: la main section, ADESSO, rivolta a progetti dirompenti presentati dalle gallerie, FEMINISMS, che ribalta i meccanismi che portano alla sottorappresentazione delle donne nel sistema e nel mercato dell’arte, EVERYDAY FOR FUTURE, che punta i riflettori sulla sostenibilità – tema centrale per la prima fiera plastic free in Italia – e GENERATION(Z), che si estende anche nella forma di una mostra (dove trovano posto alcune giovani gallerie di ricerca, spazi no profit, collettivi artistici e associazioni culturali, tra cui artists for PRIDE con Anna Vassena, Serena Gianoli, Fabio Orioli & Federica Sutti, accompagnati da Elisabetta Roncati) ed è dedicata ai giovani segnalati dalle gallerie, collettivi ed esperienze indipendenti.
Sabato Angiero, D406, Galleria Deodato Arte, galleria Zanini Arte, Blugallery, Candy Snake Gallery, Spazio Unimedia, Cellar Contemporary e Studio d’Arte Raffaelli, Crumb Gallery e T-D art gallery sono alcune delle 23 gallerie partecipanti quest’anno a BOOMing, che si arricchisce di un approfondito programma di talk e conferenze, un’open call internazionale – che ha convogliato a DumBO i progetti di 18 artisti, tra cui Fabrice Bernasconi Borzì, Zoujie Li, Federica Zianni, e il Premio Due Torri per l’Arte, a cura di Due Torri Spa, che premierà chi tra gli under 35, si esprimerà in modo più convincente su tematiche sociali e ambientali.
Il main project di BOOMing è invece affidato a Giulio Boccardi e Leonardo Panizza, che riassumono la questione dell’ADESSO con una performance estrema e radicale capace di unire la Gen(z) e le tematiche ambientali, in un appello silenzioso che si leva nell’indifferenza per le sorti del pianeta. Del progetto, intitolato In nome del cielo, ne parliamo con gli artisti.
Giulio, il pubblico osserva un’attività privata – la tua vita, in una condizione in questo caso estrema – con la possibilità di scegliere se entrare nell’azione, partecipando al tuo stato di concentrazione. Come intervengono i processi percettivi del pubblico e come si incontrano con la tua idea e la tua azione – anche in termini di significato?
«La costruzione di performance abitative (Eden, Primitivo e In nome del cielo), dove vita e arte si uniscono in una totalità di significati, è la testimonianza diretta dell’intenzione di sciogliere il confine tra le dimensioni quotidiana e artistica: è una pratica spirituale costante, viva ben oltre il tempo definito della performance, che richiede una costante educazione mentale. Da questo punto di vista, è difficile definire lo spazio-tempo dell’opera, se non grazie al contesto inusuale in cui questa prende forma. Nel processo che ci porta a definire un tempo altro che coincide con quello della performance riconosciuta, entrano in gioco diversi fattori e il pubblico è sicuramente uno tra questi. Ciò che viene osservato come un’attività privata, nel tempo della performance diventa un’attività collettiva, è questo il potere della dimensione artistica. Relazionandosi con gli elementi formali del lavoro, anche se solo per pochi minuti, il pubblico entra nell’opera partecipando al suo compimento. In Eden, e così sarà in In nome del cielo, al pubblico è chiesto di interagire direttamente con il lavoro offrendo del cibo per la mia sussistenza. L’azione va però ben oltre questa “semplice” offerta: oltre al cibo, sono gli stimoli all’anima che, sedimentandosi, si traducono in azioni del tempo quotidiano».
Come in Eden e in Primitivo, così con In nome del cielo, collabori con Leonardo. Cosa condividi con lui?
«Condividiamo un percorso che abbraccia una certa visione nei confronti del mondo naturale. Il nostro lavoro vuole stimolare un legame profondo con la natura, se non un ritorno verso rapporti arcaici e primitivi con essa che portino poi a preservarla. Oltre a proporre un certo tipo di atteggiamento spirituale, di convivenza e di fusione con la dimensione naturale, ci avvaliamo di lavori video e di strumenti tecnologici perché credo che la tecnica debba essere servile al valore che veicola».
Come vi siete conosciuti?
LB: « Con Giulio ci siamo conosciuti in occasione di un hackathon organizzato dal Muse di Trento. Abbiamo passato una notte intera con altri artisti e artiste cercando di approfondire alcuni aspetti legati all’antropocene. Poi abbiamo scorrazzato per il museo vuoto e buio, ci siamo ritrovati nella serra abitata da uccelli esotici ed abbiamo cercato di metterci nei loro panni, così abbiamo progettato Eden. Da allora facciamo diverse cose insieme, caratteristiche comuni dei progetti sono le tematiche trattate e il fatto che sono pagati male».
Prendo spunto dai lavori Eden e Ti chiedo scusa per riflettere insieme a voi su qualcosa che scrisse Paul Klee: «noi imitiamo nel gioco dell’arte le forze che hanno creato e creano il mondo». Rispetto alla ricerca di opere abitate e abitabili, il vostro contatto con la natura ha in prima battuta un’apparenza quasi sciamanica, legandosi però subito e nell’immediato alla tecnologia. Che legame esiste tra realtà e rappresentazione e quanto può essere decisivo rispetto alle sfide della contemporaneità e attraverso l’arte riconnettere l’uomo con il vero sé?
GB «Il nostro processo artistico parte sicuramente da una base esperienziale di profonda connessione con la natura nel suo senso metafisico, la presa di consapevolezza di energie, di forze e di vita aldilà dei suoi aspetti sensibili rientra a pieno nella dimensione sciamanica e nella nostra visione. La tecnologia ci torna utile in una fase a posteriori: nella realizzazione di un lavoro essa diventa tecnica per rappresentare, in una forma il più possibile poetica, aspetti e significati sedimentati dall’esperienza diretta e scelti per essere condivisi. Dal mio punto di vista, e partendo anche dalla citazione di Klee che condivido a pieno, il “gioco dell’arte” si nutre di imitazione, e ciò che restituisce è una rappresentazione che fonde le dimensioni di cui lo spirito umano fa esperienza e di quelle forze che creano il mondo. Sarebbe prepotente e arrogante pensare che la realtà possa essere superata dalla rappresentazione, quest’ultima sarà sempre una riduzione della realtà intesa in tutta la sua complessità. Per me la rappresentazione è comunicazione: creare un’immagine vuol dire scegliere accuratamente, volontariamente o no, cosa trasmettere. In questo processo la tecnica gioca un ruolo fondamentale, al solo scopo di trasmettere significati: oggi siamo sicuramente più sensibili alla tecnologia, e per affinità con lo strumento ci torna utile il suo utilizzo, ma giunti ai significati il mezzo deve poi farsi da parte».
LB: «Mi sento più vicino al Klee che definisce l’artista in questo modo: “è uomo, è lui stesso natura, parte di natura nell’area della natura”. Con l’arte non si imitano le forze naturali, si mettono in gioco le forze stesse che hanno creato e creano il mondo. L’imitazione è solo una parte della realtà che può essere generata dalla replicazione di un paesaggio e con Giulio cerchiamo di creare nuovi paesaggi, mantenendo sempre intatto il gioco dell’imitazione su diversi livelli e restando, tra noi, legati e comunicanti sullo stesso piano, senza gerarchia anzi, completandoci. Lui, per esempio, imita la realtà dei monaci stiliti del V secolo e si muove nel mondo privo di tecnologie mentre io ne faccio un uso smodato e con il video imito la realtà di oggi. La tecnologia ci aiuta a sfumare la linea di separazione tra cosa è performance e cosa è videoart, mentre realtà e rappresentazione, secondo me, ha senso mantenerle sullo stesso piano. Pensiamo alle nostre città, per esempio, sono in qualche modo rappresentazioni di civiltà, di progresso, di illuminazione, eppure possono ancora essere attraversate da fiumi in piena che esondano. Esistendo, credo, siamo allora tutti creatori, nel senso più profondo, poiché creiamo la nostra esperienza di realtà e costruiamo il mondo attraverso le nostre percezioni. La nostra pratica, che prova a gettare nella profonda inconsapevolezza del proprio destino e della propria provenienza, in qualche modo invita a partecipare al mondo naturale, trovando un significato individuale che possa però avere un ritorno in termini di collettività. Ed è proprio questo che accadrà a Bologna quando Giulio rimarrà 4 giorni in cima alla torre cercando di aumentare le possibilità di riconnessione con il cielo e con gli elementi naturali di cui fa parte – per certi versi si, avvicinandosi allo sciamanesimo, ma pur sempre rimanendo nel terreno di una pratica individuale.