A cinquanta anni dalla Rivoluzione dei Garofani, anche la Biennale ricorda il processo che rovesciò il regime autoritario di Salazar, durato quasi mezzo secolo, aprendo la strada a una transizione democratica nel Paese. Come spiegano i curatori Ángel Calvo Ulloa e Marta Mestre: «Questa Biennale esplora l’idea di libertà e le strategie dell’arte contemporanea per sfidarla, spostarla e abitarla. Il titolo ha un significato ambiguo e aperto. Se da un lato suggerisce l’idea che la libertà sia un fantasma, una presenza inevitabile e spettrale, dall’altro indica anche un processo fallito, un’incredulità in una verità un tempo certa, più una promessa che qualcosa di reale». Gli artisti invitati interpretano in maniera efficace questo concetto curatoriale, attraverso mostre che coinvolgono luoghi simbolo della città, da Monastero di Santa Clara a Nova, al refettorio dell’ex convento di Santa Cruz, dal Círculo de Artes Plásticas al Colégio das Artes e l’Università, fondata nel 1290 e annoverata fra le più antiche del mondo. O fantasma de libertade (Il fantasma della libertà) è il titolo scelto per questa edizione che cade in un importante anniversario della storia portoghese, un modo per riflettere sull’effettivo accesso alla libertà, e le barriere che invece ancora oggi rendono schiave milioni di persone.
L’antico monastero seicentesco, che negli anni della dittatura e fino agli anni Novanta fu anche una caserma militare, domina dall’alto di una collina, dirimpetto alla città vecchia. Luogo d’indubbio fascino, vi pende purtroppo un progetto attualmente sospeso di riconversione alberghiera, e il direttore generale della Biennale, Carlos Antunes, è ancora impegnato nella battaglia civile per salvare il Monastero e lasciarlo alla cultura. Intanto, come sede della Biennale, si presta ad affascinanti incontri con l’arte, data l’ampiezza degli spazi e le suggestioni storico-sociali che ancora vi aleggiano. E questa edizione di ANOZERO è densa di ulteriori suggestioni, costruita attorno a forme di empatia e solidarietà, poeticamente vicina ad altre effemeridi, come il centenario del Manifesto surrealista di André Breton (1924), con i suoi principi rivoluzionari di libertà, amore e poesia, contestando ogni sottomissione del pensiero e dell’arte agli imperativi politici. La libertà come condizione di diritto, eppure non facile da ottenere, e che spesso può anche essere soltanto illusoria.
Fra le tante opere all’interno di Santa Clara a Nova, ne segnaliamo alcune particolarmente efficaci nell’interpretare il tema della Biennale.
Il colore della pelle e il modo di vivere il proprio corpo e la propria sessualità sono purtroppo, ancora oggi, due discriminanti che limitano la libertà di milioni di persone nel mondo. Su questa problematica riflette l’artista, scrittrice e psicologa brasiliana Castiel Vitorino Brasileiro, attraverso Corpo-flor, serie fotografica iniziata nel 2016 per documentare il mondo della transessualità; questi ritratti, evocativi nella loro semplicità, di persone che spesso in passato hanno subito violenze, spiegano in maniera efficace come certe barriere aleggino invisibili ma quasi invalicabili attorno alla vita di tante persone, ossessionandole come un perfido fantasma.
Riflessione simile quella della giovane portoghese Bárbara Fonte, che ha realizzato Morte de um opositor (2024), videoinstallazione su sette canali. La sua poetica artistica può essere definita come è una continua performance intima che esplora il linguaggio dei simboli ed evoca la relazione tra femminilità, cultura e religione in una prospettiva molto personale in sintonia con la sua storia e il suo atteggiamento empirico. Per Anozero ha realizzato sette video allegorici in cui riflette sulla libertà apparente, sui subdoli sistemi costrittivi che opprimono il corpo e la mente, dalla politica alla religione alla società. Video interpretati dalla stessa artista, e dove il corpo è al centro della scena, attraverso un linguaggio gestuale che interpreta una sorta di danza contro un nemico invisibile. Di particolare impatto, anche emotivo, l’installazione The keeper – un percorso immersivo attraverso pareti tappezzate di giornali, poster d’artista, bottiglie di plastica, fiori in plastica rossa, richiami alla resistenza angolana – angolano Yonamine, già esposta al Survival Kit di Riga nell’autunno 2024, anche se in formato ridotto. L’opera rende omaggio a Paulo Kapela, figura di riferimento per l’arte e i diritti civili in Angola, scomparso nel 2020 ed è una riflessione su quanto ancora resta da compiere nel percorso delle ex colonie africane verso la piena libertà e democrazia. Un percorso complicato anche, negli anni Settanta, dall’invio di “aiuti” militari sovietici che contribuirono soltanto a inasprire la guerra civile scoppiata subito dopo l’indipendenza dal Portogallo. Nel Monastero di Santa Clara, con un’intera sala a disposizione, l’opera acquista respiro, e dispiega tutta la sua aura sacrale di “altare della libertà”. Legate invece alla tradizione dei chiostri religiosi e dei giardini chiusi, l’installazione Hortus Conclusus nel parco del Monastero, riproduce uno spazio naturali, geometricamente ordinato, luogo d’armonia dove si tengono incontri e workshop a margine della Biennale. La partecipazione del pubblico è infatti costante e su grandi numeri, cosa che premia il lavoro della direzione e della municipalità su un progetto che unisce il Portogallo all’Europa e al Sud America.
Non è facile incontrare nel mondo dell’arte contesti che indaghino il mondo della cultura gitana. Fa eccezione la Biennale di Coimbra, dove sono ben due gli artisti che la accostano, ed è probabile che la recente presenza a Venezia di Małgorzata Mirga-Tas abbia contribuito a rompere una volta per tutte il proverbiale ghiaccio. Nel monumentale refettorio dell’ex convento di Santa Cruz, la spagnola Teresa Lanceta dispiega una installazione con grandi “arazzi” di tessuti cuciti assieme, un omaggio alla povertà del Raval, antico quartiere di Barcellona abitato da operai, anarchici, gitani, e spagnoli provenienti dalle regioni più povere del Paese (che dà il titolo anche all’opera). Una zona “marginale”, dove la cultura del riuso era necessaria per la sopravvivenza quotidiana. Questi tessuti dai colori grezzi, prevalentemente rosso e nero, garriscono però come bandiere di dignità, ricordano la leggerezza del flamenco (nato anche grazie al contributo dei gitani) e la fede utopica negli ideali (dal socialismo all’anarchia) che hanno costellato la storia della Spagna. Il Raval come luogo di resistenza, come metafora di quelle problematiche che la Spagna e il Portogallo, pur avendo superato da tempo la dittatura, devono in parte ancora risolvere.
Ancora un omaggio alla cultura gitana da parte di Pedro G. Romero, anche se più strettamente documentario: Scénario è dedicata ai cosiddetti “nuovi Babilonesi”, coloro che sono ancora in cammino verso una meta, che le circostanze ancora precludono loro. I gitani sono i viaggiatori per antonomasia, e Romero ripercorre le tracce del dialogo fra la loro cultura e quella europea stanziale, a cominciare dalla rivista della Gypsy Lore Society (fondata nel 1888 in Gran Bretagna per studiare la cultura gitana), edizioni delle poesie di George Borrow (detto il Byron borghese, forse il primo poeta a scrivere in termini positivi degli zingari inglesi) vocabolari di romani-spagnolo e romani-inglese; tracce di un dialogo che non sempre è stato facile, come dimostrano le prime manifestazioni dei gitani in Portogallo, subito dopo la Rivoluzione dei garofani, per rivendicare il diritto a una casa (documentato da fotografie d’epoca). Un viaggio, ancora una volta, fra le invisibili barriere della marginalità che comprimono il potenziale della libertà.
Presso il Colégio das Artes, il collettivo spagnolo NEG – Nova Escultura Galega ha realizzato Plan Coimbra 1924-1974-2024, installazione monumentale su più sale che ripercorre cento anni da un punto di vista artistico e sociale: con riproduzioni di documenti d’epoca, memorabilia degli anni Settanta e Ottanta, ripercorrono la nascita del Movimento Surrealista e del Secondo Manifesto di Coimbra (entrambi del 1924, quest’ultimo relativo al Futurismo locale), la Rivoluzione come però è stata vissuta dalla gente, i cambiamenti apportati e quanto ancora non è stato raggiunto, e la visione del 2024 come anno di un ulteriore rilancio della città. Un secolo documentato da parole, fotografie, musica, omaggi a Brâncuși, Boccioni e al Surrealismo (che seppero “andare oltre”), con l’auspicio che la rivoluzione sociale possa realizzarsi compiutamente. Infine, ancora Yonamine, è protagonista nel Pátio das Escolas (la grande piazza panoramica all’interno dell’Università) con Arapis, una grande installazione che ritorna sull’irrisolta questione del neocolonialismo economico e l’emigrazione di cui è purtroppo fra le prime cause. Emigrazione che è a sua volta causa di tanti naufragi con centinaia di vittime ogni anno.
In conclusione, si esce dalla visita con la consapevolezza di aver visitata una Biennale seria e onesta, che lascia da parte l’apparenza dei nomi de dei “marchi” per dare spazio a riflessioni coraggiose, esteticamente valide, ma soprattutto concettualmente coinvolgenti e significative, in particolare per quanto riguarda la produzione artistica dei territori periferici del “Sud del mondo”.
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