La Biennale di Gwangju, Lee Sook-Kyung e il turning point dell’identità coreana

di - 25 Dicembre 2021

Continua ad accendersi l’attenzione verso il panorama asiatico dell’arte. Da un lato, le grandi gallerie e le case d’asta stanno facendo la corsa per posizionare la propria bandierina nelle città ritenute più vivaci, da Seoul a Hong Kong, come nei casi di Pace Gallery e Phillips, solo per citare i più recenti e clamorosi. Dall’altro, le manifestazioni a cadenza periodica si stanno imponendo sulla scena internazionale e alcune sono ormai entrate nel calendario ufficiale, rivendicando al contempo una loro “autonomia”. Tra queste, la Biennale di Gwangju, in Corea del Sud, che ha appena annunciato il direttore artistico della sua 14ma edizione, in apertura nell’aprile 2023: si tratta di Lee Sook-Kyung, curatore senior dell’arte internazionale alla Tate Modern di Londra.

La scelta della Biennale di Gwangju

Una scelta significativa, perché Lee Sook-Kyung è di origini coreane ma ha vissuto per lungo tempo lontana da “casa”. L’ultima volta che un direttore artistico nato in Corea ha diretto la Biennale da solo è stato 15 anni fa, nel 2006, si trattava di Kim Hong-hee, ex direttore del Seoul Museum of Art. Dopo aver conseguito una laurea e un master in Storia e teoria dell’arte presso la Hongik University, ha lavorato come curatrice presso il National Museum of Modern and Contemporary Art dal 1993 al 1998. Poi si è trasferita nel Regno Unito per conseguire un master in Critica d’Arte presso l’Università di Londra e un dottorato in Storia e Teoria dell’Arte presso l’Università dell’Essex. Prima di lavorare alla Tate Modern di Londra, Lee Sook-Kyung ha ricoperto vari incarichi presso la Tate Liverpool e il Tate Research Centre.

Alla Tate Modern ha recentemente curato una retrospettiva itinerante dedicata a Nam June Paik, probabilmente l’artista coreano più conosciuto al mondo e anch’egli lungamente vissuto al di fuori dei confini nazionali. Va detto, però, che negli ultimi anni l’arte coreana di Avanguardia, come la corrente Mono-Ha guidata da Lee Ufan, è al centro di una approfondita riscoperta dal punto di vista espositivo, critico, storiografico e anche di mercato.

Nel suo annuncio, la Fondazione Biennale di Gwangju ha affermato di aver scelto Lee Sook-Kyung per il suo ruolo chiave nella diffusione della conoscenza dell’arte coreana a un pubblico globale. In particolare, la biennale ha elogiato il suo Padiglione Coreano per la Biennale di Venezia 2015, che presentava opere di Moon Kyungwon e Jeon Joonho, un duo già conosciuto in Europa, anche grazie alla partecipazione a dOCUMENTA (13) a Kassel nel 2012. Sempre alla Biennale del 2015, inoltre, il coreano Im Heung Soon veniva premiato con il Leone d’Argento attribuito al giovane artista più promettente, anche se in realtà proprio giovanissimo non è, essendo nato nel 1969.

Una prospettiva non occidentale

Sebbene non siano state ancora diffuse notizie più precise sul tema della Biennale di Gwangju del 2023, la manifestazione dovrebbe essere focalizzata sul “Gwangju Spirit”. Secondo quanto anticipato dagli organizzatori, la manifestazione aprirà una connessione tra il contesto globale e la città sudcoreana, che oggi è un fiorente centro di industrie di alta tecnologia e che il 18 maggio 1980 fu teatro del “Massacro di Gwangju” contro la dittatura di Chun Doo-hwan.

«Il ruolo dell’arte è quello di affrontare la nostra crisi e di proporre direzioni future: conflitti razziali e di classe, emergenza climatica e preoccupazioni ambientali, e la pandemia causata da COVID-19 sono crisi su una dimensione planetaria, che gli artisti del nostro tempo stanno esplorando», ha dichiarato Lee in una nota, promettendo il suo impegno per «Una prospettiva non occidentale».

Una delle sue ultime esperienze di curatale è stata “A Year in Art: Australia 1992”, attualmente in esposizione alla Tate Modern. La mostra prende come punto di partenza la storica sentenza del 1992 a favore di Edward Koiki Mabo, attivista per i diritti alla terra delle isole dello Stretto di Torres. La sentenza capovolse il concetto della “terra nullius”, la “terra che non appartiene a nessuno”, la dottrina sulla quale gli inglesi giustificarono la colonizzazione della terra ora conosciuta come Australia. La mostra esplora il modo in cui gli artisti hanno interpretato la relazione tra i popoli aborigeni dello Stretto di Torres e le loro terre, nonché l’impatto, ancora in corso, della colonizzazione nelle modalità di rappresentazione della società australiana di oggi.

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