Tra gli eventi che nel tempo hanno contribuito in modo fondamentale a definire l’identità dell’art week torinese c’è The Others Art Fair, la prima fiera in Italia dedicata all’arte emergente, che quest’anno giunge alla decima edizione. Un anniversario celebrato con una serie di eventi, progetti e novità, a partire, ad esempio, dal display espositivo formato da otto “piazze” – all’interno del Padiglione 3 di Torino Esposizioni – su cui si affacciano 56 espositori nazionali e internazionali, creando una disposizione a raggiera pensata per favorire scambi più fluidi e trasversali.
Abbiamo parlato dell’edizione in corso con Lorenzo Bruni, Direttore artistico di The Others Art Fair dal 2019.
«Abbiamo lavorato a lungo con gli artisti, le gallerie, gli spazi no profit e le residenze cercando di realizzare un progetto site specific per la fiera. Rispetto alle edizione passate di The Others quest’anno la fiera non ha un luogo da riattivare come è stato nelle edizioni passate, in cui si svolgeva, ad esempio, in un ospedale o nelle carceri dove le opere erano site specific rispetto allo spazio e al contesto. Quest’anno, invece, le opere lo sono rispetto al tempo: sono state tutte pensate come progetti che rifuggono dall’immediatezza dall’immagine, vanno viste lentamente, analizzate, confrontate con anche la possibilità di percezione delle immagini stesse. Sono immagini che a un primo sguardo sfuggono, non si sa bene “di che cosa si tratti”, se pittura, disegno, installazione, etc, ma che ci invitano a un confronto e noi abbiamo la responsabilità, come spettatori, di avvicinarci e accettarlo. Questo è l’elemento che accomuna i lavori esposti, è la grande differenza rispetto a due anni fa ed è la reazione di fronte allo shock della pandemia, che ci siamo ritrovati a vivere in gran parte a livello inconscio e che forse è il grande filo conduttore che ha guidato tutta la partecipazione di tutti i protagonisti. L’idea di fondo è quella di una piattaforma per ripartire a creare un dialogo, delle relazioni sulla base di propositi reali».
«Certo, totalmente. Il nostro è un tentativo di lavorare su questo partendo dalla sperimentazione con il format di The Others, perchè in 10 anni di attività sono cambiati molti aspetti. Quando nel 2011 Roberto Casiraghi e Paola Rampini hanno ideato questo format gli spazi indipendenti erano altri, così come lo era l’aspettativa del pubblico. Chi sono gli altri oggi? Chi è fuori dal sistema mentre tutti siamo diventati sistema e non c’è più un sistema a cui ci dobbiamo opporre e che attraverso l’opposizione definisce la nostra identità? Al di là della nostra specificità, il format fiera va in generale ripensato perché l’impostazione che avevano le fiere in passatoi fa e le necessità a cui rispondevano – cioè quella di radunare in un solo luogo tutto il meglio delle gallerie per poterlo concentrare e renderlo visibile in un momento preciso a collezionisti, curatori di musei – non funziona più. Questo non è solo il caso delle fiere d’arte, ma in generale, si va sempre di più verso la richiesta di fiere specialistiche, che possano rispondere a un pubblico preciso. Il punto è diventato proprio questo: a quale pubblico ci si può rivolgere? Dal momento in cui si può parlare con tutti è necessario scegliere a chi parlare e con chi dialogare, altrimenti si lancia un messaggio in bottiglia in modo casuale».
«C’è chi la chiama ad asterisco, a stella, a fette di torta [sorride]. Siamo in un edificio incredibile che è un monumento al modernismo, realizzato da Ettore Sottsass padre e da Pier Luigi Nervi, molto affascinante. Per poter rispettare la natura di The Others, che mette a proprio agio lo spettatore e vuole eliminare i filtri per far avvicinare in maniera spontanea lo spettatore alle opere e coinvolgerlo all’interno di un discorso era necessario creare un display differente dalla fiere tradizionali. Abbiamo così sperimentato questo format con l’idea di un possibile dialogo tra i presenti, in un confronto costante tra “vicini”, ad esempio anche tra gli organizzatori tra gli stand. In ogni “fetta di torta” si svolge una piccola mostra collettiva, un piccolo dialogo in cui vive questa idea di possibilità di riflessione su una relazione più ampia: qui si ritrovano il site specific temporale e quello tematico, invece che solo quello spaziale».
«Cerca innanzitutto la possibilità di incontrare altri operatori del sistema, non solo altri galleristi, ma anche spazi no profit, collettivi, editori, residenze d’artista, vuole creare dialoghi e confrontarsi su tematiche comuni e varietà di approcci. Si avverte l’esigenza di sperimentare modi diversi di affacciarsi al sistema, l’interesse non è solo nella vendita e nell’auto-presentarsi. L’aspetto della vendita rimane, tuttavia, fondamentale: anni fa, ad esempio, uno spazio no profit non vendeva in nome della legittimazione culturale, oggi se vuole avere un peso all’interno del sistema deve innovarlo e rafforzarlo anche attraverso l’inserimento dei lavori degli artisti all’interno dell’ufficializzazione dei circuiti specifici e del collezionismo».
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