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La prima edizione di ReA! Fair, alla Fabbrica del Vapore. Un report
Fiere e manifestazioni
di Arnold Braho
Si è conclusa da poco la prima edizione di ReA! Fair alla Fabbrica del Vapore, a Milano, fiera indipendente dedicata a giovani artisti, fondata con il fine di riempire quel vuoto che in Italia è rappresentato dalla mancanza dei degree shows: mostre volte a creare dei ponti per connettere gli artisti all’interno del sistema e del mercato dell’arte. La politica di ReA! e delle cinque curatrici è stata quella di selezionare gli artisti tramite una open call e di seguirli nella scelta dei lavori da mettere in mostra, l’obiettivo è quello di porsi come giovane istituzione capace di mettere in luce e far circolare i lavori selezionati ad un pubblico di collezionisti, curatori e galleristi, orientando l’attenzione sulle opere e sulla ricerca artistica.
Ad aprire la mostra, e a prova del fatto che REA! sia una fiera atipica, è l’installazione site specific Totem (2020)realizzata in loco da Leo Cogliati (1998): l’opera sembra porsi come uno statement preciso volto a scardinare il sistema di produzione, una parete lignea composta da vari layers ricavati dai negativi del taglio laser per la produzione di mobili a incastro, gli scarti così diventano un display, un supporto per le ceramiche prodotte dall’artista stesso.
Il primo piano della Fabbrica del Vapore viene dedicato prettamente a lavori audiovideo e digital, suddivisi in tre diverse sale. Welcome to Catfish sex booth di Catfish Collective (1996, Fabian Gilbertoni) riecheggia all’interno delle sale della Fabbrica attirando l’attenzione mediante i suoi colori sgargianti. Il Catfish si presenta come un’entità scultorea, un’installazione performativa che si apre al pubblico come un confessionale che vuole mettere il punto sul binomio tra autorappresentazione del sé e gratificazione instantanea che intercorre all’interno dei social network. L’esigenza di un rapporto confidenziale tra opera-osservatore si presenta all’interno della sala nella video scultura Cinemà (2020) di Yara Piras (1995), un cinema intimo che viene attivato al momento dell’osservazione, dedicato a un’unica persona date le dimensioni ridotte della proiezione. Di fronte, Eurico Sá Fernandes (1991) si presenta con la scultura Aestetic of Magic (2019): lasciti di un autoritratto performativo che decostruisce il sistema di rappresentazione della realtà mediante la decodificazione dell’immagine, letteralmente a Place of Illusions, Where Illusions Are Also Real. All’interno della sala centrale sono installati due specchi semiriflettenti che vanno a comporre Ora dopo ora (2020) di Alessandro Costanzo (1991), finestre opache che si oppongono al pavimento e al contenitore in cui l’opera è posta, appoggiandosi su dei pungiglioni che normalmente vengono utilizzati per tenere a distanza i volatili dalle architetture; di fianco le stratificazioni video di Fabrizio Narcisi (1989) pongono l’attenzione sugli effetti della contaminazione umana sulla natura e sul mondo animale, riconfigurando le tecniche di caccia dei bufali ad una rappresentazione post-future in cui le macchine hanno invaso anche la struttura biologica del mondo animale. Alessandra Cecchini (1990) propone un paradossale tentativo di contenere frammenti di cielo attraverso un supporto cartaceo e uno video con Contenere il Cielo #1 e #2 (2020); Vanishing Point (2019) realizzata da Eleonora Roaro (1989) invece ci presenta l’artista camminare invano alla ricerca della spirale di Robert Smithson sulle rive del Great Salt Lake (Utah, USA) fino ad immergersi in esso, dissolvendosi all’orizzonte.
Il piano superiore della Fabbrica del Vapore è occupato in grande parte da una componente pittorica: Alexander Elson (1995) ci porge una stratificazione materica dettata da un dinamismo e una ritmica che si presentano grazie alla sua formazione musicale, Chalkboard (2020) è un frammento di tempo e di spazio misurato attraverso il ritmo pittorico, mentre nell’opera astratta Veicoloenergia (2020) di Antonella Prasse (1996) emergono informazioni riguardo il processo di produzione e di concezione del lavoro da parte dell’artista. Alessio Guarda (1991) decostruisce la propria memoria personale e il processo di soggettivazione dettato dalla religione con Il mio pastore (2020), Mattia Sugamiele (1984) invece tratta con Enea (2020) la trasformazione e la sparizione dell’immagine tramite l’interferenza dell’apparato materico.
Per quanto riguarda la componente figurativa Chiara Rubin (1988) fissa sulla tela l’influenza dell’architettura mediterranea e italiana con Garda (2020) mentre Mattia Papp (1993) propone Firenze: Santo spirito n.7 (2019), dove la rappresentazione della continua stratificazione della storia appare come usura presente all’interno delle composizioni architettoniche tipiche della cultura italiana. Elena Shaposhnikova (1990) agisce sulla memoria con l’obiettivo di rievocare e riinserire all’interno della narrazione ufficiale eventi realmente accaduti in Siberia e successivamente censurati con Neve gialla 2 (2020), infine Gaia Bellini (1996) impregna le sue tele attraverso l’utilizzo di elementi vegetali distaccandosi dalla pittura con Sindone vegetale (2020): quello che ne consegue è un’attenzione all’organicità che reagisce in maniera diverso al colore, trasformando le tele nel tempo.
La fotografia come pratica politico-artistica che ricorda il détournement dei situazionisti si esprime in mostra grazie a Giovanni Sambo (1995) con Studio superficiale di città (2019) e Jeremy Philip Knowles e i suoi 8am. Walks (2020), che insieme dimostrano una particolare premura nell’attraversare e mappare lo spazio attraverso l’apparato fotografico; Vincenzo Zancana (1991) analizza lo spazio rurale tramite un’immagine che grazie al suo display diventa scultorea, allo stesso tempo Freya Moffat (1994) utilizza la fotografia per documentare il rapporto intimo che l’artista ha con le proprie sculture di carta pesta, presenze che accompagnano le sue giornate inserendosi all’interno di un’architettura domestica, fondendo performance e vita vissuta.
Infine al centro della struttura architettonica della Fabbrica del Vapore, osservabile da ogni punto della mostra, è appesa la grande vela di Cecilia di Bonaventura (1996) su cui viene proiettata Estetica della difesa II (2019), performance che l’artista ha eseguito orchestrando alcuni marinai del porto della sua città nelle Marche, facendoli respirare insieme ed emulando così il suono delle onde del mare. L’esigenza di un respiro collettivo oggi sembra poter creare ponti capaci di sorvolare l’abisso di una realtà a cui siamo sottoposti, sembra poter dar voce e significato ad un atto di creazione collettiva capace di risignificare i canoni del presente, ed in questo caso di quelli imposti dal sistema dell’arte.
[…] Paci: «Abbiamo visto il lavoro di Yara Piras all’interno della Rea Art Fair, una fiera giovane organizzata da un gruppo di giovanissime curatrici a Milano in un periodo di […]