Yim Yen Sum, From Here, to There, 2024. Credits: Mama Kristina, Mama Monika, Mama Stefiana, Mama Regina and Mama Pheony (collaborating weavers) Commissioned by Sharjah Art Foundation and CHAT (Centre for Heritage, Arts and Textile), Hong Kong Installation view: Sharjah Biennial 16, Bait Al Serkal, Sharjah, 2025. Photo: Shafeek Nalakath Kareem
La 16esima Biennale di Sharjah si estende su sedici spazi dentro e fuori la città di Sharjah, coinvolge più di 140 artisti e ottanta nuove commissioni. Un organismo potente e vasto, che richiede tempo e riflessione per essere apprezzato nella sua interezza. È curata dall’indonesiana Alia Swastica, Amal Khalaf di Singapore e cresciuta nel Barhein, l’indiana Natasha Ginwala, la neozelandese Megan Tamati-Quennell e la turca Zeynep Öz. Amal e Natasha sono curatrici in istituzioni anche europee.
Ciascuna curatrice interpreta il tema della Biennale: il trasportare (to carry), da una sua collocazione e prospettiva geografica, culturale, curatoriale che si confronta con le altre, intrecciando i percorsi, le idee e le scelte in una negoziazione continua fatta di parole e di ascolti attraverso incontri, workshop, proposte, incontri con gli artisti e con le comunità del luogo invitate a partecipare. La Biennale risulta suddivisa per luoghi di influenza, alcune locations sono quasi interamente curate da una sola curatrice, ricevendo una forte impronta personale, altre invece sono luoghi condivisi dove convergono prospettive che si possono accostare o sovrapporre. Ricostruire i fili dei pensieri curatoriali e artistici, anche se risulta faticoso, diventa un bell’esercizio di lettura.
Alia Swastica adotta una prospettiva fortemente militante presentando opere soprattutto di artiste donne e collettivi femminili che utilizzano la tessitura spesso in collaborazione con comunità asiatiche, con preferenza per l’Indonesia, per elaborare narrazioni di resistenza, resilienza, denuncia e solidarietà. Un esempio per tutti è Womanifesto attivo in un primo momento in Tailandia tra il 1997 e il 2008, che ha fornito una piattaforma inter-generazionale per artiste in vari paesi dell’Asia attraverso la quale riunirsi, confrontarsi e creare collettivamente. Nella Biennale presentano un nutrito corpo documentario, disegni e opere di tessitura multicolore e avvolgenti. Il collettivo si è oggi diffuso in India, Svizzera, Emirati Arabi. La curatela di Alia si è incentrata su Calligraphy Square e Calligraphy Museum dove l’idea del linguaggio trasmesso dalle donne ingloba conoscenze e storie nella costruzione di cartografie, suoni, spazi alternativi. Un’impronta fortemente militante caratterizza l’opera dell’italiana Rossella Biscotti e della serba Mila Turajlić. L’installazione Saturated Salty Mud Stories, 2025, di Biscotti, fa riferimento al commercio, al colonialismo, all’estrattivismo, allo sfruttamento e alla migrazione attraverso elementi derivanti dal luogo come i tubi che si riferiscono al petrolio e elementi naturali. La regista Mila crea una video-installazione dedicata al Non-Aligned Movenment creato negli anni 50 da Egitto, Ghana, India, Indonesia, Africa e Sud America. Il progetto rivisita le narrative politiche della Guerra Fredda e del periodo postcoloniale.
La curatrice Amal Khalaf riconosce nel “portare” un’assunzione femminile legata alla cura e alla protezione, al rituale che offre sepoltura e divinazione. Reclama un ritorno alle conoscenze indigene e alle culture cancellate dai colonialismi. Due sono i progetti che fanno da viatico alla sua curatela, entrambi alla Al Qasimiyah School e portatori di un pensiero collettivo, femminile, femminista ed attivista. L’artista americana Suzanne Lacy viene ricordata attraverso la documentazione delle sue performance collaborative degli anni Settanta che mobilitavano centinaia di donne attorno a temi fortemente politici e di riscatto femminile. Qui viene presa come riferimento seminale di pratiche ora diffuse, ma di cui ha fatto da apripista con il suo fondamentale libro Mapping the Terrain: New Genre Public Art del 1995, che riconosceva l’avvento della pratica dialogica e della mediazione con le comunità nell’arte pubblica.
Accanto a Suzanne si trova The voice of domestic workers (VODW) Gruppo nato in Gran Bretagna nel 2009 per dare voce a 16.000 lavoratori domestici migranti. L’imponente installazione di Adelita Husni-Bey nella lontana Ice Factory di Kalba è una delle opere di maggiore impatto della Biennale, evocativa dei Sun Tunnels (1976) di Nancy Holt: attraverso i tunnel si apprezzano i video circolari che indagano lo sfruttamento delle risorse idriche libiche durante la colonizzazione italiana. L’opera è stata accompagnata da workshop di pedagogia radicale. Nel Sharjah Art Museum si trova l’installazione della terza italiana della Biennale, Raffaela Naldi Rossano, che fa riferimento al Mare Mediterraneo, alle zolle tettoniche degli abissi e all’elemento dell’acqua come luogo di immersione rituale che richiama mitologie ed ecologie del Golfo, arricchite da ricerche che sviluppano temi di relazione tra corpo e spazi fatte in collaborazione con specialisti e istituzioni del luogo. Infine, magica e coinvolgente è l’installazione sonora di Monira Al Qadiri sul disastro ecologico marino provocato dallo sversamento in mare degli idrocarburi, che causano il mutamento di genere del murice.
La terza curatrice, Megan Tamati-Quennell, incardinando il proprio pensiero nel concetto di “portare” (ihi in Māori) collegandolo alla terra e al luogo, ad una geografia che scivola assumendo in sé gli opposti e l’idea fluida di impermanenza, crea una cosmologia di significati multipli che tornano nell’intera kermesse. La sua curatela comprende soprattutto artisti di ascendenza indigena australiana e neozelandese e nativi americani o afroamericani seminali come Lorna Simpson e Arthur Jafa. Affascinante l’installazione sonora nelle case abbandonate tra la sabbia di Al Madam dell’artista nativo americano, vincitore del Pulitzer per la musica nel 2022, Raven Chacon; l’artista coreografa l’incontro sonoro tra i cori dei nativi americani e i cori di canzoni tradizioni emiratine. Coinvolgente il video Whakamoemoeā (2025) dell’artista neozelandese Luke Willis Thompson dove davanti alla telecamera come in un telegiornale la protagonista Māori parla animatamente di una costituzione dei popoli indigeni transnazionale che verrà adottata nel 2040. I lavori della giovane artista Māori Ana Iti sorprendono per la ricchezza di pratiche, media e riferimenti.
Il riferimento guida di Natasha Ginwala è il pozzo e l’acqua come riserva di memoria ancestrale e luogo di ritrovo trans-generazionale. Al Bait Al Serkal mi ha particolarmente colpito per intensità il gruppo di opere da lei radunate sotto l’egida della morte, la malattia e i protocolli di cura, rito, lamento che li accompagnano. Intensi, lunghi e poetici i film dell’artista del Bangladesh Naeem Mohaiemen e dell’indiana Pallavi Paul: atmosfere decadenti di un ospedale e la malattia caratterizzano il primo lavoro, luci notturne che accompagnano la pietas della sepoltura il secondo. Ancora acqua e terra ed evocazione del suono del vento caratterizzano l’installazione con oggetti e suono dell’artista pachistano Fazal Rizvi, perfetto simbolo dei valori chiave richiamati dalla curatrice. Un tema importante in Natasha è quello del suono, del canto e della musica in chiave poetica, ma anche di resistenza così come viene interpretato al meglio nel lavoro del nativo americano Sky Hopinka con due video del 2021 che sfidano la linearità della narrazione e operano una metamorfosi continua dell’immagine, proponendo una relazione inter-specie materiale e spirituale.
Infine, il riferimento curatoriale di Zeynep Öz è YAZ, che in turco significa “scrivere” ed “estate”. YAZ è anche un progetto di 13 libri che ha accolto molti artisti e scrittori da diverse parti del mondo, partendo dal concetto di fiction. Nella Biennale i cartelli con frasi e immagini di YAZ erano sparsi ovunque, come un ulteriore filo rosso della complessa kermesse. Gli interessi della curatrice si incentrano sulla lettura di un presente fortemente caratterizzato dallo sviluppo tecnologico e dalle nuove realtà economiche e relazionali che porta con sé, che trova nella città oasi di Al Dhaid il cardine geografico curatoriale. Uno dei filoni della Biennale è rappresentato dal nativo americano Cannupa Hanska Luger è la fantascienza collegata alle “tecnologie ancestrali”. Per quanto riguarda l’analisi socio-economica-culturale del presente ipertecnologico, prendo tre esempi: il video di animazione del serbo docente di nuovi media Vladen Joler con Kate Crawford incentrato sulle conseguenze del nuovo estrattivismo economico; le Redes de conversión 2021 e gli Heliomorphisms 2021, che ragionano sulle energie rinnovabili e sui linguaggi di traduzione arcaici e odierni di Ximena Garrido-Lecca; infine il pioniere dell’arte robotica indigena Fernando Palma Rodríguez.
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