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«L’intelligenza artificiale non basta»: il direttore Nicola Ricciardi sulla nuova edizione di miart
Fiere e manifestazioni
Dichiaratosi fedele all’analogico ma anche «un po’ secchione», il direttore di miart Nicola Ricciardi guarda al futuro, ma soprattutto al presente della fiera mettendosi in gioco. Seguendo alla lettera la massima del “conosci il tuo nemico”, ingaggia una danza conoscitiva con un mondo a cui guarda con spirito critico: quello della tecnologia. Nello specifico, quest’anno il dialogo avviato è con l’intelligenza artificiale, cercando di esplorarne le peculiarità al di là di un entusiasmo aprioristico. Ne scaturisce una collaborazione con il fotografo Charlie Engman, che naviga le acque parzialmente esplorate dell’IA già da tempo, illustrando il concept della fiera attraverso una campagna visiva che valica i confini del tempo e dello spazio. Il main goal rimane quello di stupire, di affascinare e creare un dibattito, non solo nei cosiddetti addetti ai lavori ma anche nel pubblico generalista, senza dimenticare ovviamente lo scopo commerciale, per una fiera che ha saputo incrementare costantemente i suoi numeri.
Come si è evoluta la fiera in questi ultimi quattro anni?
«È cambiata parecchio: quando sono arrivato nell’estate del 2020 mi sono trovato davanti a un mondo tutto da ricostruire e questo non riguardava solo miart, ma tutte le fiere in generale. Quello che abbiamo fatto in questi quattro anni dopo lo tsunami della pandemia, è stato quindi di rinnovare la fiducia di tutti gli stakeholder, a partire dalle gallerie, dai collezionisti, dalle istituzioni, dagli artisti e dai direttori dei musei. Li abbiamo visti tornare sempre più spesso, sempre in maggior numero, ogni anno abbiamo avuto una crescita praticamente in doppia cifra del numero di gallerie mantenendo un criterio di qualità.»
A proposito di numeri…
«Nel 2021, la mia prima edizione, era impossibile avere più di 150 gallerie, ovviamente era difficile viaggiare. Poi sono aumentate a 160, 170 l’anno scorso e poi quest’anno abbiamo superato le 180. Di pari passo sono aumentate anche le presenze internazionali delle gallerie che di solito si vedono a Frieze o a Basilea e che sono a miart quest’anno per la prima volta, oltre a collezionisti, musei che non venivano a Milano da prima del Covid e che invece adesso tornano, anche per la felice concomitanza con la Biennale di Venezia che ci permette di essere un po’ uno stopover per tanti, soprattutto quelli che arrivano da oltreoceano. Crescono i premi, gli sponsor… se devo riassumere tutto chiaramente una crescita positiva e continuativa.»
Quali sono invece i tratti distintivi dell’identità della fiera di quest’anno?
«È stato un po’ un gioco. Io sono un analogico, ho sempre guardato con diffidenza la tecnologia, tanto che quando sono arrivato tutti profetizzavano l’arrivo delle fiere online. Ero adamantino nel sostenere che la fiera dovesse essere fatta esclusivamente o principalmente in maniera fisica. Sono sempre molto spaventato dagli entusiasmi un po’ troppo veloci, da questa tendenza nel vedere la nuova tecnologia come qualcosa che da un giorno all’altro cambierà il nostro modo di vivere. La storia ci insegna invece che le mutazioni che avvengono molto lentamente, il che non esclude che quella sarà la nostra direzione futura. L’intelligenza artificiale è di nuovo l’innovazione a causa della quale ci si aspetta che cambi tutto in maniera repentina, quindi mi sono detto “invece di guardarla da fuori per una volta voglio sporcarmi le mani”.»
In che senso?
«Se da un lato non apprezzo gli entusiasmi acritici, dall’altro penso che sia anche naif cercare di fare finta che non esistano queste rivoluzioni. Per una volta ho deciso di mettermi a fare qualcosa che è contrario alle mie corde proprio perché mi piacciono le sfide, mi piace cimentarmi in prima persona con ciò che non capisco. Quando si è presentata questa opportunità di lavorare con un fotografo ho pensato, insieme a Francesco Valtolina e Rossana Passalacqua, a Charlie Engman proprio perché ha a che fare con l’intelligenza da prima che diventasse cool farlo. Abbiamo voluto lavorare con qualcuno che lo fa da tempo e così sono nate queste immagini che descrivono l’immagine di miart 2024 come un portale.»
Tra delfini e mucche volanti, puoi spiegarci meglio il rapporto tra l’immagine di quest’anno e l’intelligenza artificiale?
«La sezione Portal è il progetto che porta la fiera fuori in città con diversi progetti: il portale era proprio l’immagine guida ed è stata tradotta da Charlie con queste porte largamente intese come la portiera di una macchina o la portiera di una casa, che una volta aperte lasciano passare mondi inaspettati. L’idea è giocosa, ma anche uno stimolo di dibattito: c’è tanto di cui parlare, di cui talvolta preoccuparsi, a proposito di intelligenza artificiale e arte, come sulla proprietà intellettuale; ma credo di aver seguito sempre nel mio lavoro la massima del “conosci il tuo nemico”. Occorre capire come funziona una cosa prima di rifiutarla, così ho voluto fare questo tipo di esercizio e, devo essere sincero, mi sono molto divertito. Sono molto contento del risultato che abbiamo ottenuto.»
Cosa puoi dirci a proposito della continuità, non sempre ad armi pari, tra la Art Week e la Design Week a Milano?
«Con la Design Week ormai sono tanti anni che c’è questo back to back, il che genera aspetti positivi e negativi, perché il sovraffollamento a volte crea confusione. Io però mi concentro su quelli positivi, perché miart è una delle poche fiere in cui si vende bene fino all’ultimo giorno, la domenica, proprio perché beneficiamo di chi viene a Milano per la Design Week. Milano e il design hanno un DNA affine: noi cerchiamo di raccontare anche la città nella nostra fiera, per cui che il design sia presente la settimana dopo – sebbene già da tanti anni in overlap con miart – secondo me è solo una storia positiva da raccontare.»
Ma neanche un aspetto negativo, quindi?
«È ovvio che, ad esempio, si lotta per gli stessi sponsor, per la stessa attenzione sulla stampa; però io vedo questa competitività come motore e non come un freno.»
Anche la sovrapposizione della Biennale di Venezia sulla settimana di design è da considerare come un motore?
«La Biennale di Venezia chiaramente è qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato, ma che comunque attira un ampio pubblico internazionale.»
A chi si rivolge una fiera come miart?
«A tutti: sembra una frase fatta ma è vero, la mia più grande ambizione è che la gente all’interno di miart “si perda”, a costo di sembrare un po’ controproducente. Però è vero che la soddisfazione maggiore me la danno quei collezionisti o quei visitatori che entrano con un’idea, ad esempio un collezionista che si concentra solo sull’arte contemporanea che però perdendosi – che è uno dei motivi per cui ho tolto tutte le sezioni o la distinzione tra moderno e contemporaneo – si ritrova davanti a un autoritratto di de Chirico e finisca per comprarlo. Lo stesso discorso si può applicare per chi non ha capacità di spesa, come uno studente che viene a vedere – perché a miart si trovano anche opere del primo novecento – i Boccioni o i Balla che magari non ha mai visto così da vicino, per scoprire poi che anche le ricerche contemporanee possono comunicargli qualcosa. Per questo mi piace pensare che miart parli a tutti, proprio perché non voglio che qualcuno entri con un’idea chiusa ed esca con la stessa. Voglio che ci si stupisca.»
Arte, musica, design… quali sono state le fonti di maggiore ispirazione durante gli anni della tua direzione?
«La musica è sempre stato un fil rouge di tutte le mie edizioni, quest’anno con il titolo no time no space preso in prestito da Battiato. Sono convinto che non si possa guardare all’arte solo con gli occhi dell’arte: vedo un enorme beneficio, invece, quando incontra altri mondi. La musica mi ha sempre permesso questo pensiero laterale e quest’anno non è la sola a intersecarsi con i linguaggi di miart: ci sono anche le immagini in movimento, il rapporto costruito con Careof che porta una serie di videoproiezioni al cinema Anteo, con la performance che come tutti gli anni è in collaborazione con FOG, il festival di arti performative della Triennale. Sono tanti i temi sui quali ci stiamo confrontando, proprio perché l’arte vive e respira meglio se travalica i propri confini. Ce l’hanno insegnato gli artisti stessi a uscire dalla tela, scendere dal cavalletto: e noi cerchiamo di farlo, anche con l’obiettivo di allargare il nostro pubblico.»