Il concetto di spazio nell’arte, nell’architettura e in ogni espressione visivo-artistica, negli ultimi anni ha subito un processo di trasformazione persino semantica. Anche l’arte ambientale, nei termini in cui ne parlano alcuni artisti come Veronica Montanino, «implica un’arte che si fa progettazione della dimensione esperienziale dello spazio e di un’azione trasformativa dell’habitat, e di ogni forma di ambiente sociale, urbano o virtuale che sia». Inevitabile era dunque, anche nelle manifestazioni nazionali, un cambio di paradigma, anzitutto quando si parla di sostenibilità dei materiali utilizzati o meglio del loro riuso, come è risultato evidente nell’edizione 2023 di Arte Fiera, che ha coinvolto ogni ambito, dal design ai più disparati medium e approcci artistici, ha riorganizzato i suoi spazi e, infine, ha messo in mostra opere straordinarie di ceramica, una materia “radicata a livello locale” che sta vivendo un grande revival anzitutto internazionale.
Una premessa necessaria per dare contesto alle novità e alla linea editoriale scelta dal riconfermato direttore artistico Simone Menegoi per la manifestazione di Bologna appena terminata. Dall’installazione Connecting Green Hub di MCA di Mario Cucinella Architects che ha accolto i visitatori all’ingresso e che ha visto il riuso di un intervento precedente nell’ottica di una sempre più attenta strategia waste-less, alla scelta di stringere un legame più forte con la città attraverso la commissione dell’opera di Alberto Garutti, fino a mettere l’accento su almeno tre o quattro focus: ceramica appunto e poi fotografia, multipli e pittura, quest’ultima con un chiaro impulso verso quella italiana. Nella selezione, difficile da fare, tra stand, artisti, galleristi e ricerca, siano essi inediti, conosciuti e di grande qualità, abbiamo optato per un zoom più mirato e senza una distinzione precisa: siamo stati guidati piuttosto da una direzione di gusto e di interesse.
La nostra segnalazione punta dunque a evidenziare alcuni nomi che, a nostro avviso, hanno meglio incarnato lo spirito della Fiera o che hanno rappresentato una scoperta degli ultimi tempi o dei quali la kermesse ha particolarmente messo in luce qualche aspetto più inedito e interessante. E se siete curiosi di sapere i risultati delle vendite, qui il nostro approfondimento dal punto di vista del mercato.
Oltre ai conclamati stand e quelli già messi in rilievo (la Galleria do ut do con il progetto di Juan Cros, la WEM che porta in Fiera l’installazione di Chiara Dynis, MLB di Maria Livia Brunelli con l’istallazione di Bertozzi e Casoni, la Spot Home Gallery con lavori di Dimitra Dede e Michael Ackerman.) segnaliamo, a parte, la GAM Galleria d’arte maggiore di Bologna con i lavori di Joel Meyerowitz, uno dei primi fotografi a usare il colore e a scendere per strada negli anni ’60, con lavori ispirati all’estetica degli oggetti di Giorgio Morandi, di Sissi dalle cui cene performative nascono le ceramiche, alcuni rari progetti inediti di Lucio Fontana, ma anche la Fondazione Cirulli per l’allestimento in particolare di collage originali dell’età del dada (Schwitters, Hoch, Hausmann e Tzara), e la galleria Farsetti che ha fatto vedere alcune rarità come una tempera e foglia oro su pannello di Gino De Dominicis e un mélange di collage, pastello e acrilico di Jean Micheal Basquiat, datato 1980.
Per la sezione fotografia, anche quando al limite del paradosso, come quelle di Evelyn Loschy, Marko Markovic, Giovanni Morbin e Slaven Tolj esposte in Fiera da una delle poche gallerie straniere, la Michaela Stock di Vienna; ci sono state anche quelle dedicate al sogno americano della Galleria Paci di Brescia e Porto Cervo, o quelle di Sophia Pompéry, Praise of the Void (elogio del vuoto) e José Manuel Ballester per la Galleria Kanalidarte di Brescia.
La nostra attenzione, tuttavia, si è fermata su altri artisti e progetti. Per esempio, nella nuova sezione Multipli, sulle artiste Chiara Lecca e Giorgia Severi per la Magazzeno Arte Contemporanea che sul filo della poetica di Joseph Beuys hanno ripreso – con tecniche e materiali alquanto originali (la corteccia di pioppo, per esempio, usata come matrice e prodotto artistico), le tematiche del paesaggio naturale fortemente compromesso rispetto a quello entropico e della relazione donna/uomo/natura con un’attenzione particolare al mondo animale ma visto in accezione violenta e lugubre, nonostante l’esito finale sia stato esteticamente raffinato.
La ABC Arte di Genova e Milano ha portato Nanni Valentini, maestro scultore le cui opere allestite a parete si consacrano per una propria eleganza che trascendono il peso della materia per sorvolare alte sulle cose. La stessa corposità della ceramica è stata esaltata dalla Galleria Studio G7 Bologna con il progetto Latitudine 0°, in cui gli artisti hanno tentato di definire una mappa che lambisse quel parallelo idealmente irraggiungibile.
Infine, mettiamo in risalto due artisti, abbastanza giovani. Per la Galleria Contini il lavoro di Enzo Fiore (classe 1968), dove il quadro è uno scenario ambientale organico, uno spazio di sperimentazione i cui elementi compositivi sono assolutamente naturali (resina, farfalle, insetti, muschio, ecc.) e brulicano come “materia” e natura vivente. Una poetica che è riassunta da Antonin Artaud, come si dichiara nel catalogo della mostra del 2017 che si è tenuta alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia: «Non si possono più presentare idee in forma inerte. È necessario un linguaggio che recuperi le scosse, le percezioni al di sotto del pensiero».
E Dario Picariello (1991), per la LABS Gallery, sempre di Bologna, che unisce e “cuce” la tradizione di alcuni canti popolari amorosi destinati al macero raccontati dalle donne del sud Italia con l’innovazione della tecnica: la superficie dei suoi raffinatissimi lavori è lavorata attraverso un processo complesso e non replicabile allo stesso modo, che porta la fotografia, attraverso l’uso di un acido particolare, ad essere ingrandita, impressa e trasferita sulla seta e poi rimaneggiata con delle pennellate uniche. È una sorta di calcografia, rivisitata con un linguaggio contemporaneo, piuttosto che fotografica, il cui esito poetico e leggero ci porta nel lontano Ottocento quando le donne celebravano ancora oralmente l’amore.
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