Cominciamo dalla fine. C’era una volta una capitale italiana dell’arte contemporanea. Bologna ha ormai abdicato a questo ruolo, tra nuovi e vecchi problemi irrisolti è vittima di un paradosso: pur continuando ad essere centro di attrazione giovanile, non riesce a gestire questo potenziale. Anzi, ha finito per trasformare in un problema (infrastrutturale, sociale, di sicurezza) ciò che un tempo la rendeva incubatrice di nuovi talenti e laboratorio privilegiato delle arti visive made in Italy.
Non è qui il luogo per discutere a chi sia da imputare la colpa, alla volontà degli artisti, alla formazione obsoleta, alle istituzioni che latitano o operano in isolamento, alle gallerie che non esistono, alle associazioni che non riescono a sostenersi o ai collezionisti che non ci credono. Certo dalla giunta Cofferati si attendono le risposte.
Così la maggiore fiera italiana dell’arte, cresciuta come naturale epicentro artistico della penisola, si trova oggi ad essere quasi isolata. Un carrozzone scintillante che s’apparecchia e si celebra nell’indifferenza. Le poche iniziative o sono di scarso interesse o provengono dalla stessa Art First, come l’omonimo percorso di installazioni in città. Tanto vale allora sfruttare il traino e giocarsi anche Netmage, il festival internazionale di arte elettroniche con troppi dejavu nel programma. C’è poi chi rema pure contro (anche a se stessa) come la Gam: con una buona mostra come Drive da spendere, che fa? Prima organizza un ciclo di incontri coordinato da Marco Senaldi evitando accuratamente il periodo di fiera e poi riduce l’orario d’apertura di un’ora, facendolo coincidere con quello della fiera. Eh già, troppo intelligente era la vecchia politica di anticipare rispetto all’apertura della fiera per consentire una comoda visita della galleria, nell’unico posto in zona dove si possa consumare anche una colazione decente.
Tutto ciò porta ad una conclusione: tanto l’ottimo giudizio su Artissima teneva conto della grande offerta di contorno, Triennale compresa, quanto il giudizio su Art First riflette la condizione di partenza ad handicap. Mica facile mettere in piedi un evento di qualità con qualcosa come 215 gallerie, riuscire a dargli uno spirito europeista nonostante la partecipazione degli operatori stranieri si limiti ad 1/3 e quella anglosassone si riduca appena ad una dozzina.
Eppure il progetto della Direttrice Silvia Evangelisti, con la consulenza di Lorenzo Rudolf, riesce. Dove sta il segreto? Certamente nella selezione attenta e molto più rigorosa dell’anno passato.
Quali sono le capitali italiane dell’arte contemporanea oggi? Inattaccabile Milano, 40 gallerie vengono da lì, e a fianco di Torino emerge Roma, 12 a testa, e poi Napoli, 7, le stesse concesse alla città ospitante. Un contentino ma, al contempo, una chiara presa di posizione. E all’estero? Se i riferimenti Londra e Nyc, nonostante la sovraesposizione, tentennano, meglio puntare alla Vecchia Europa, che oggi si difende bene. 21 gallerie vengono giustamente da una Germania pimpantissima e 14 da una Francia vogliosa di ripresa. E infine oculate spigolature, nella periferia italica come nei paesi emergenti.
C’è poi da considerare un altro fattore. Lo si voglia o no, Bologna ha rinunciato quasi del tutto al ‘900 storico, ormai relegato a pochissime gallerie, seppure di qualità. E dunque chi ha coraggio si faccia sotto. Magari la stessa organizzazione di ArteFiera. Perché c’è una nuova fiera da fare, che tratti magari il periodo che va dal secondo ‘800 fino alla prima metà del ‘900. Tutto questo dentro Art First non sta più a proprio agio.
Le pecche? Quel senso di confusione e di dispersione che nonostante tutto rimane; la suddivisione per settori è pura convenzione e spesso crea disorientamento. Forse è ora di metter mano agli allestimenti e all’illuminazione, apparsi obsoleti. Rimangono un problema le aree di ristoro. I bar e i ristoranti, insufficienti e scomodi. E poi c’è il bollino nero dell’anno, la ghettizzazione degli editori più lontano possibile da tutto, quando ormai le forze del visitatore son finite da tempo. Un vero smacco per una componente fondamentale del sistema dell’arte.
Minaccia: se il prossimo anno non si pone rimedio facciamo sciopero e poi le recensioni… se le facciano da soli.
IL CONTEMPORANEO
Le milanesi
Pur confermandosi leader del mercato, Milano qualche grattacapo ce l’ha. Ci sono i noti problemi strutturali e di rapporto con le istituzioni e c’è la concorrenza di altre città. Ma il rischio maggiore si annida nella mancanza di un ricambio generazionale. Sarà una sensazione, ma le gallerie emerse negli ultimi anni non sembrano avere il dinamismo e la propensione internazionale che caratterizzava i colleghi ‘nati’ negli anni ’80. Né, d’altro canto, questi ultimi possono continuare a tirare la carretta ancora a lungo sul fronte dell’arte emergente. È fisiologico il progressivo cambiamento della galleria di scoperta in galleria di mercato, pena la chiusura. Che tradotto significa tirare le somme del lavoro svolto, occuparsi degli artisti che nel frattempo si sono affermati, demandando ad altri il lavoro sporco sulle nuove leve.
Ecco dunque allo stand De Carlo le grandi foto dei baby cow boys di Anna Gaskell e la pittura modaiola di Yan Pei Ming. L’arte cinese è un fenomeno che dura, c’è solo da chiedersi quanti nomi resisteranno al tempo. La Galleria Marella, che ne ha fatto una bandiera, ha presentato un intero zodiaco di Bai Yilou fatto di volti, collage di centinaia di fototessere. Ma non rinuncia a promuovere i giovani di casa nostra, come Luca Francesconi, suoi i suggestivi acchiappasogni fatti di piume, spini e… copertoni di bicicletta.
A proposito di italiani emergenti. Nello stand di Cannaviello, votato alla pittura figurativa, rivediamo Federico Pietrella in versione gestuale. Che siano timbri, impronte digitali, gel o silicone, l’elementare bicromia è garantita.
Tutta pittura anche per Di Maggio. Oltre ad un Verlato sottotono, tra le new entry meglio il paesaggismo di Peter Ern della tecnica infantile un po’ inflazionata di Roger Hansson.
Cristiano De Gaetano riproduce, per The Flat, vecchie foto dell’album di famiglia in cera-pongo su sagome in legno. A terra scorrazzano l’orsetto comunista e il poppante manga di Filippo La Vaccara.
Da Zonca & Zonca Simon Linke rifà ad olio inviti di mostre e pubblicità di Gucci e Ralph Lauren. Interessante lavoro autoreferenziale che dialoga con un grande tappeto di Boetti del ’92-’93 e Dorazio.
Didattico Giò Marconi, che ripercorre la storia di Schifano. Più utile questo dell’altro mezzo stand concesso a Mochetti.
La fotografia non si è lasciata desiderare, e meno male. Da Susy Shammah spicca l’emozionante serie di ritratti adolescenziali in b/n realizzati da Ingar Krauss in Russia. Tirata d’orecchie a Ca’ di Frà. Witkin è un genio e va bene, però inflazionarlo per tutte le fiere italiane ci pare eccessivo. Tanto i compratori sono sempre gli stessi. O no?
Per la serie se supermarket dev’essere lo sia fino in fondo, Pack accoglie con shopper griffate. Ma poi regala anche due redivivi: un Gligorov che, con la serie “Attacco al sistema”, esplora e contamina gli stereotipi del potere e Miltos Manetas, con disegni digitali su carta fotografica.
Dicevamo della fotografia. Curti e Gambuzzi espongono recenti fiori minacciosi del maestro Araki, Cardi punta sul classico Vik Muniz Van Goghiano e sulla pittura laccata dell’ultimo Schnabel.
Struth e Katz impegnativi da Monica de Cardenas, ma è il suo ruolo, Delvoye per Corsoveneziaotto. Più accessibili sono i pneumatici annodati di Fabio Viale scolpiti nel marmo per Rubin. Li avevamo visti alla collettiva recente Untitled in via Ventura, dove si accinge a bilocarsi la bresciana Minini, qui con i bellissimi paesaggi zippati di Arienti, inediti quadri di Kapoor, Beecroft e un sempreverde Ontani.
L’altra bresciana, Paris, si gioca tutti progetti nuovi (bravo): il King Kong di Solmi, la ricerca botanica dei CarettoSpagna triennalizzati a Torino, il finto kolossal inventato degli 01.org che, nonostante la giovane età, si meritano un posto nella storia dell’arte con il prefisso -net. E, a proposito di storici dei new media, ci sta pure l’anticipazione dell’attesa personale degli Ubermorgen.com.
Le torinesi
Il feudo dell’arte contemporanea italiana non molla, anche se forse dagli operatori ci si aspetterebbe di più visto il sostegno offerto dalla città e dalle istituzioni. Franco Soffiantino si gioca il giovane Michael Beutler vincitore del Present & Future ad Artissima. Gli preferiamo i classici: i 3 scatti natalizi e malinconici di Maja Bajevic, Lucy Orta e un caposcuola delle giovani generazioni, Jimmie Durham. Chissà se a lui ha pensato, ad esempio, il Francesco Gennari di Tucci Russo, che gli associa l’altro emergente Caravaggio, con Penone e l’ultimo Tony Cragg messo in mostra in galleria.
Da Vitamin, accanto ad Elena Arzuffi e ad un Simeti un po’ sbiadito, riscuote attenzioni Marco Campanini, giovane fotografo che indaga l’autoreferenzialità dell’arte tra antico e moderno. Lavoro che gli è valso la copertina delle Pagine Bianche dell’Emilia.
Si gioca i lavori su carta di Tony Oursler In Arco (l’installazione è, al solito, da Lisson). Ma c’è anche un lavoro di James Brown, il meno conosciuto della generazione neopop primitivista americana degli anni ’80. Tra gli emergenti Andrea Mastrovito (anche da Biagiotti).
Per la fotografia, Photo & Co. và sul classico con Franco Fontana, Basilico, Jodice, Jürgen Klauke e i nidi di Nils-Udo. Così anche Peola, che non rinuncia ai caposcuola tedeschi Becher, ma attira con i capricci scultorei dei ritratti in tessuto di canapa e legno di Marguerite Kahrl.
Le romane
Regge l’innamoramento della città eterna per il contemporaneo. Certo, lo fa a modo suo, un po’ confusamente, specchiandosi troppo in se stessa, con gallerie sempre nuove, con qualche incertezza legata ad ambiziosi progetti che tardano a concretizzarsi. Ma l’entusiasmo c’è, l’impegno pure. Forse un pizzico di cinismo a scapito dello spettacolo non guasterebbe.
VM 21 associa ai noti Bianco e Valente, Paolo Grassino e Thorsten Kirchoff, i carillon trasgressivi della giovane romana Luana Perilli, che rinverdiscono la tradizione pop capitolina. Da tenere d’occhio.
Monitor incuriosisce soprattutto per il video di Guido van der Werve, olandese i cui lavori inducono una sottile destabilizzazione, mai traumatica, giocando sul tempo e lo spazio.
La trapiantata Lipanjepuntin deve sentirsi a suo agio nella culla della dolce vita e così si gioca la serie dei ritratti di Anton Corbijn, in transito dalla personale romana a quella triestina: David Bowie, Bono, Brian Ferry, ritratti in b/n dal loro fotografo preferito.
Spezziamo un paio di lance. Una per Eva Marisaldi. Da Sales filma un teatrino e ne riproduce le immagini televisive. Quale sia la vera realtà dei due è l’interrogativo. C’è anche Arienti che, presente in ben quattro gallerie, pare sempre lì lì per ottenere il meritato riconoscimento. L’altra lancia la spezziamo a favore della galleria Oredaria che, fiera a parte, si toglie lo sfizio di promuovere un evento a latere a Villa Guastavillani, dove si rinnova il sodalizio tra l’artista Alfredo Pirri e Roberto Benigni, con ABO a far da raccordo.
Nota immancabile per il colosso Lorcan O’Neil. Il suo compito è di alzare il tiro e lo fa con Tracey Emin, Ontani e Kiki Smith.
Le napoletane
Soprattutto l’approccio va elogiato. Va bene le star internazionali, va bene il mercato ma non si rinuncia ai talenti di casa. Prendete Scognamiglio, che offre una meritata ribalta alle meteoriti di Piero Gatto e alla mappa del mondo di Luigi De Simone, realizzata ritagliando cartone da imballo. Ad essi si affiancano i gemelli Perone che, come ci confida un giovane collezionista, non saranno i Chapman ma vendono bene.
Umberto Di Marino, dal canto suo, non poteva non giocarsi la fotografatissima Shivavespa di Mark Hosking, che sembra fatta per stare in fiera, con quella moltiplicazione di specchietti retrovisori solari a riscaldare la pignatta. Ma attenzione, perché è anche l’opera migliore dell’artista e, come si dice,
Studio Trisorio scommette su splendidi scatti sulla città partenopea di Raffaella Mariniello. Anche perché farlo su Rebecca Horn e Lewis Carroll son capaci tutti. Nota finale per la 404 e il video Wrestling di Jen deNike, passato all’ultimo Greater New York del PS1. Non solo per questo, da tenere d’occhio.
Le toscane
Un po’ per tutti i gusti, senza clamori. Dai big agli emergenti, dalle avanguardie all’arte esteticamente più abbordabile. Ai primi ci pensa Poleschi con Delvoye, Baselitz, Sierra e il cinese Chen Chien-Jen, curiosamente omonimo del Ministro della sanità di Taipei. Famoso per esser passato in Biennale il primo, per la lotta alla Sars il secondo. Da segnalare almeno i grandi Pizzi Cannella di Poggiali e Forconi.
Le giovani leve italiche spettano a Biagiotti. Si va dalle performance più recenti di Nico Vascellari alle composizioni di kleenex colorati di Sissi, dai frame televisivi iperrealisti dipinti da Andrea Facco ai video e alle foto, interessanti, di Robert Pettena, fino ai piccoli golem di Carl D’Alvia. Mescola le carte Enrico Fornello, orfano di Antonella Nicola. Ma se la cava con nuovi lavori di taglio felliniano di Sara Rossi e il classico Luigi Ghirri, qui con una Modena del ’72.
Tossi fa le cose in grande. Una monumentale crocifissione ai raggi X e un lavoro di 5 metri x 1,25 (costo ca. 11.000 €). Gli autori Benedetta Bonichi e Giacomo Costa (acquistato da Diego della Valle) sembrano alla ricerca dei loro limiti.
Daniele Galliano, da Bagnai, si è ormai guadagnato la patente di cronachista delle fiere. Sempre sul pezzo, stavolta presenta Mississipi muddy waters live, sulla tragedia dell’uragano Katrina. La vista a volo d’uccello sulle case allagate è splendida. Come il vendutissimo O’ Drawing della May Cornet, nipote di Lucian Freud da non perdere di vista. La stecca che non t’aspetti? E’ di Continua. Mai vista così sotto tono. Forse, per una volta, era meglio passare.
Le altre
Ovvero, quelli per i quali il decentramento può essere anche un vantaggio.
Tra le veronesi Studio La Città piazza uno storico Calzolari, tre recenti lavori di Basilico dedicati a Istanbul e, per non tradire l’indole minimalista, le resine traslucide di Hamak e le tele cangianti di David Simpson. Peccato per le scelte recenti: giovane arte, questa sconosciuta.
Per Lo Scudo due begl’Afro degli anni ’50 bastano e avanzano mentre Arte e Ricambi spende Andrea Galvani, recentemente in personale a Milano da Artopia, e l’ultimo Morbin presentato in galleria. Ma non si fa mancare la popstar ispanica Carles Congost. Le pescaresi non tradiscono.
Le due padovane si presentano l’una, Estro, con Jan Kotik che denuncia il mercato delle armi rivisitando un sofà in pelle (Speculation study, 2005), l’altra, Perugi, trasgredendo alla tradizionale linea minimalista e sposando l’attitudine invasiva e debordande dei nuovi bad boys Dearraindrop. Tra l’Ape-Pape di Laurina Paperina, il carotone di Bittente e i lavori di Taylor McKimens, l’età media dei 6 aristi esposti non supera i 26 anni.
Le emiliane non spiccano sul fronte contemporaneo. Studio G7 porta Nacciarriti, Forni persegue la linea della pittura figurativa commerciale, Niccoli delude con uno stand raccoglieticcio, Otto non è nella forma migliore.
Da segnalare un curioso Frangi da Les Chances de l’Art di Bolzano, che si fa un lifting per ringiovanire, aspettando il ritorno dell’astrazione.
La trentina Raffaelli cavalca il buon periodo di Baechler, la barese Bonomo si gioca bene Nunzio ed Elger Esser, tra scultura e fotografia due menti sempre rigorose. E Il Chiostro di Saronno si concede una delle rare opere performative. Marco Di Giovanni organizza un programma di incontri ravvicinati con Madonnine sempre diverse, straniere e trasgressive.
Le straniere
La folta truppa tedesca non fa sconti. Tra i classici, Bernd Klüser si presenta con un parterre de roi: Beuys, Katz, Baechler e Tony Cragg. Per Karsten Greeve ci sono le lamiere accartocciate di Chamberlain (ma anche acquerelli e foto), i Cy Twombly, Ramification del ’71 e Untitled del ’62, e un’intera mostra delle foto di Bill Brandt, dal ’47 al ’59, reduce da una retrospettiva parigina alla fondazione Henri Cartier-Bresson.
Un’opera museale di Merz e storici lavori di Boltanski, tra cui l’Inventario degli oggetti appartenuti ad una donna di Bois-Colombe del ’74, sono le carte da visita di Kewenig, mentre Hans Mayer infila tra Pistoletto e Kapoor anche la serie Men in the cities di Robert Longo.
Sul fronte dei contemporanei Laura Mars Group ne vanta di interessanti. Ursula Döbereiner riproduce frame da film pixelati fatti a biro blu mentre Philip Wiegard, classe ’77, comprime gli oggetti o addirittura un intero bar con effetti ottici simili all’anamorfosi.
Hermann e Wagner scommettono tutto sulla Helsinki School. Dei fotografi formatisi nella capitale finlandese e che stanno girando per mezza Europa, almeno i coloratissimi interni di tende da campeggio di Raissa Venables e le antiche tele sparate di flash di Jorma Puranen (Reflections) sono decisamente interessanti.
Tra i video, rari per la verità, segnaliamo il suggestivo lavoro digitale Seagull di Pavel Mrkus, da Büro für kunst. In una sala stile ancient régime, decorata con intagli in legno dorati, un gabbiano si anima e cerca la via di fuga al suono del clavicembalo.
Coraggiosamente Magnus Muller di video ne rischia addirittura una batteria intera, tra i quali c’è la traduzione ironica e realista del videogame di Lara Croft fatta da Suzanne Weirich. Da noi lo faceva Sabrina Impacciatore per il programma Ciro.
All’austriaca Ernst Hilger si vede più la fotografia che la pittura, con Vitali, McKee e Khroshilova.
E veniamo alle anglosassoni. Tra gli inglesi, Ben Brown spara Boetti, Manzoni, Haring e tanta fotografia di qualità: Ruff, Gursky d’annata e una Candida Höfer inedita, dopo la apparizione sull’asse museale Milano-Venezia. La novità? Si intravedono ectoplasmi umanoidi.
Un’opera per tutte da Pescali & Sprovieri: un tappeto di Ilya Kabakov. Passando per il museo portatile di Lisson, immutabile come Tex Willer, Max Wigram si candida per la palma di stand più interessante e propositivo. Più che le opere di Marinne Hugonnier sono le 2 opere di James Hopkins a colpire. Dead Man’s Hands e Puzzle Passage esplorano dimensioni interstiziali tra gli oggetti di uso comune attraverso effetti deformanti, disassemblaggi, intrusioni e fratture nella materia. Chiudiamo la parentesi britannica con Archeus, che rende omaggio alla pittura tedesca di Neo Rauch e Daniel Richter, e Haunch of Venison, per il cerchio di Richard Long, Dan Flavin, Jorge Pardo e i quattro Keith Tyson.
Della scarna rappresentanza d’oltre oceano resta traccia di un lavoro recente di Frank Stella, per Mixografia, dello sfoggio di big di Sperone, dove spicca un lavoro nuovo di Vik Muniz, Mars, God of War, after Diego Velazquez, ricostruzione della celebre tela conservata al Prado fatta in negativo, in un mare di cianfrusaglie. Infine, per gli amanti del figurativo, un vero colpo sono stati i pastelli e oli su carta di Heidi McFall. Perfetti e seducenti rivisitazioni di scatti in bn vintage, si confrontano con i classici di Montesano da Annina Nosei. E non cedono un millimetro.
Da Alain Le Gaillard si vede il nuovo video di Chen Chien- Jen dal titolo Bade Area mentre da Thaddeus Ropac, oltre a Katz, c’è un Peter Halley impegnativo ma lezioso, che mostra segni di stanchezza.
Infine Albert Benamou fa un po’ la Marella transalpina sul fronte cinese, ma segnaliamo anche le ricostruzioni in scala di studi d’artista di Charles Matton e le opere pop, neanche a dirlo un po’ cinesi, di Emile Morel.
La svizzera Analix Forever mette in mostra la truppa italica con Casini, Francesconi e Arienti, tra Annika Larsson e Martin Creed. Tuttavia si è vista più in forma e ordinata. Respingente.
Artisti originali per una galleria dalle idee originali. Merita di esser citata l’iniziativa della romena Posibila di far realizzare agli artisti una rivista che i bambini possono colorare.
Interessante la rivisitazione in chiave moderna del misterioso dipinto di fine ‘500 conservato al Louvre raffigurante Gabrielle d’Estrée e la sorella. E’ di Kaliska Lodz, per la polacca Program.
Tra gli occhi a mandorla c’è la giapponese Base che si segnala per la pittura minimale di Yasuko Iba, la scultura di Akiko Tsuda, le foto di Hong Hao, con gli inventari dei propri oggetti personali. Ma non si fa mancare Cy Twombly. Nota finale per la coreana Bhak, che oltre alle foto di Shim Soo-Koo, ci ha fatto stupire ancora una volta davanti al compianto Nam June Paik.
L’esprit nouveau
Bella iniziativa sponsorizzata Byblos, marchio che si è legato indissolubilmente all’arte contemporanea all’interno del padiglioncino ricostruito di Le Corbusier.
Nove gallerie nuove, digiune di fiere, per una sorta di Liste al ragù.
La napoletana NOTGallery presenta i lavori di Franklin Evans, le mattonelle pop dipinte di Atrium-Project e i lavori di Federico Solmi. ACB di Budapest si segnala soprattutto per i mini video di Erik Matrai: scene religiose di genere animate digitalmente. Si va dal San Francesco e gli uccelli all’Annunciazione, fino all’Assunzione.
Per l’argentina Braga Menendez Julia Masvernat ritaglia riviste a scalare, riducendo il contenuto ai minimi termini informali.
Il bluff? C’è anche la ben nota The Breeder, abbonata alle fiere di mezzo mondo, da Torino a Basilea, da Miami a NY. Ma non dovevano essere gallerie esordienti?
Il ‘900
Era il nocciolo duro ed oggi è messa in minoranza dal contemporaneo. E’ vero che c’è il boom da cavalcare e che i maestri storici più acclamati, in qualità di defunti, hanno la brutta abitudine di non fare opere nuove per rivoluzionare gli stand. Tuttavia c’è parecchio lavoro da fare sul ‘900 italiano e non e allora, chi l’avrebbe detto? Forse c’è ancora spazio per almeno un’altra fiera.
Tra le milanesi Il Mappamondo espone un Paesaggio marchigiano di Osvaldo Licini del 1925 che ha fatto la Quadriennale del ’59-’60, un Boldini del 1910, un monocromo di Schifano del 1962 e 2 Guttuso, uno del ’48 ed uno del ’58, che documentano il passaggio dal neocubismo al realismo. Un Bucci del 1918-20, un Adolfo Wildt del 1923 e un Severini del 1907 sono le proposte di Antologia mentre lo Studio Guastalla vanta 2 terrecotte del 1928, un bronzo per la Biennale del ‘26 e altro di Arturo Martini, molto Marino Marini, un paesaggio di Morandi.
Il paesaggio tv di Schifano del ’70 esposto da Arte 92 fa riflettere su una serie sottovalutata di un maestro ancora da riscoprire. E sono belli i Capogrossi a cavallo tra anni ’40-’50 e il Morandi del ’20 di Tega, che si concede la rara chicca di Tamara De Lampicka del ’26. Di solito li vediamo falsi o in poster.
Morone festeggia i 40 anni con Raciti e Moreni, Gianferrari, che fa della qualità un marchio di fabbrica, si gioca anche un Fausto Pirandello d’annata dal titolo Donne del Lazio. E’ del 1935. Porro va a ritroso: da Candida Höfer alla Storia naturale della moltiplicazione su carta quadrettata di Boetti del ’78, da Fontana fino al Boccioni del 1909, Campagna con contadino al lavoro.
Di Bonaparte segnaliamo i De Chirico, della torinese Carlina i Boetti, e per Mazzoleni il sacco di Burri del ’52.
Repetto e Massucco (Al) puntano sulla fotografia di Ghirri e di Elisabetta
Una mostra per Vasarely è la proposta dell’astigiana Eidos, un Braque del ’17 tra quelle della Galleria d’Arte Maggiore di Bologna, in buona compagnia con Marescalchi che ha un buon Vedova, un Alechininsy del ’62 e un De Kooning del ’74.
Tra le capitoline De Crescenzo e Viesti allestisce uno stand di livello con un raro Gino Rossi del 1912, un Afro del ’50, un Leoncillo del ’57 e i Franco Angeli degli anni ’60. Pirandello è invece protagonista dell’altra romana Russo.
Oltre agli Accardi, La Scaletta di Reggio riesce a presentare una scelta di disegni di Afro dal ’32 al ’42. Ne ha ben donde, avendone curato il catalogo ragionato.
Campeggia un Ceroli monumentale dalla fiorentina Tornabuoni mentre la veneziana Bugno organizza una mostra nella mostra, ripercorrendo tappe, temi e documenti della breve ma intensa avventura del Fronte Nuovo delle Arti, culminata nella prima Biennale del dopoguerra, dove fu esposto anche il Canale della Giudecca di Pizzinato che si vede qui. Ma ci sono anche, dello stesso autore, un lavoro del ’47 preparatorio ai pannelli dell’osteria dell’Angelo, dove il movimento nacque. E un Santomaso fatto per una collettiva alla BLM del ’47.
Niente eccessi per l’altra veneziana Contini ma almeno un Chia dell’’87 ed un Kiefer del ’92. L’Elefante di Treviso presenta una selezione di documentazione fotografica della body art, sull’onda di una recente mostra. Ecco dunque Dieter Appelt, Luthi e Gina Pane, con il Prospetto per verifica delle stigmate n.1, dell’’85.
Tra le straniere Massimo Cirulli (USA) stupisce per un Plinio Lomellini del 1903, dal titolo Gioventù vittoriosa; passato per la Biennale del 1904, sarà piaciuto a Sgarbi. Per la spagnola Manuel Barbié ci sono persino una sculturina di Malevich, Plante – Omega e una foto di Brancusi nel suo studio, da lui stesso firmata. Infine la personale di Burri è della transalpina Sapone. Ma sono opere degli anni ’80 e ’90.
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alfredo sigolo
[exibart]
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Gran bell'articolo!
é un piacere leggerlo. Bravo
Jacopo
la fiera di bologna è un mercataccio al chiuso. scusate, ma è una vergogna. qualità bassissima e atmosfera troppo lontana da qualsiasi spirito artistico . va bene il business ma si può almeno tentare di fare cultura.
Mi sa che Lucia alla fiera di Bologna non c'è stata e se c'è stata chissà dove aveva la testa. Una fiera dovrebbe fare cultura ???? Prego consultare un dizionario e leggere la differenza tra fiera e museo.
Arte Fiera non sarà la migliore del mondo però sta dando buoni segnali di ripresa, speriamo continui.
Siete tutti quanti troppo frustrati per poter capire qualsiasi cosa, alche la più ridicola o banale o portata avanti da conoscenze e da un business italiano che sfiora i limiti della decenza. Ve lo dicevo, siete solo dei frustrati.