Il senso della bellezza è essenza
difficilmente misurabile e, se indubbiamente non s’identifica con le impietose
luci al neon di una stazione di benzina, con altrettanta certezza possiamo
escludere che si possa incarnare nelle pareti dorate dell’Emirates Palace. La
domanda è ricorrente e con imbarazzo irrisolta: perché ospitare una fiera
d’arte “contemporanea” entro i bastioni aurei d’un albergo di lusso? A parte il
fatto di impressionare i collezionisti stranieri e di lusingare i patron
locali, rimane un mistero.
Per quanto una fiera possa essere
l’occasione ideale per misurare il polso del mercato dell’arte, certo non si
tratta dell’ambiente più idoneo per scoprire il livello di vivacità di
qualsivoglia scena artistica. Tutte le gallerie sono omologate sul presunto
gusto locale, in un tentativo neppur velato di superare le aspettative di
vendita e giustificare così una trasferta finanziariamente dispendiosa.
Si percepisce quest’anno, in sottofondo
almeno, un senso di novità che non può essere direttamente o esclusivamente
ascritto alla presenza di autorevoli gallerie internazionali. Indubbiamente il
mercato dell’arte può essere comparabile a una partita a scacchi, dove la
partecipazione di nomi quali
Gagosian,
White Cube o
Hauser
& Wirth potrebbe aver influenzato le altre gallerie – quelle europee
e americane, quanto meno – nella selezione dei lavori da proporre.
Indubbiamente si coglie una minor indulgenza nei confronti degli artisti arabi
e iraniani, che lo scorso anno avevano letteralmente spadroneggiato, e i
classici internazionali (
Dennis Hopper,
Andy Warhol,
Louise
Bourgeois,
Subodh Gupta, oltre agli infallibili
Alighiero
Boetti,
Piero Manzoni o
Damien Hirst) la fanno da padroni.
Le gallerie locali non sono nemmeno da
menzionare, avendo proposto una selezione di rimasugli risultante dagli
invenduti della passata stagione, tutti lavori visti così tante volte a Dubai
da giustificarne a fatica l’ulteriore presentazione sul mercato, a meno che non
si mirasse ai visitatori stranieri, risaputamente poco inclini a spendere cifre
astronomiche.
Nonostante la propaganda ufficiale abbia
insistito nel pubblicizzare l’elaborazione di un concetto rinnovato e
internazionalizzato, Abu Dhabi Art è chiaramente la continuazione delle
precedenti edizioni di Art Paris-Abu Dhabi:
The Wings Party, concepito da
Fabrice Bousteau (
Beaux-Arts), il coinvolgimento della Sorbonne in
conferenze e dibattiti, il partenariato del Louvre nella presentazione di
The
funerals of Monna Lisa, progetto commissionato dallo stesso Louvre a
Yan
Pei-Ming sono solo alcune prove, seppur le più lampanti, della
coerenza dell’impianto francese. Peraltro, un approccio diverso sarebbe stato
difficile da prevedere o credere: infatti, dopo l’annuncio all’inizio di
quest’anno della cancellazione di Art Paris-Abu Dhabi 2009, il lancio mediatico
della nuova Abu Dhabi Art ha anticipato di appena un paio di mesi l’apertura
ufficiale della manifestazione.
Fra le novità di quest’anno, due
iniziative meritano di essere evidenziate: il progetto della Bidoun Library,
una collezione itinerante di libri, cataloghi, riviste ecc. che segue le
pratiche dell’arte contemporanea e l’evoluzione delle varie scene artistiche
mediorientali, i cui effetti dovrebbero essere apprezzabili sul lungo termine,
offrendo così un autentico servizio alla comunità artistica locale. La seconda
iniziativa, non così originale ma pur sempre utile in questo contesto, è il
“salotto” dedicato alle fondazioni non profit per l’arte contemporanea già
affermate in Medio Oriente: decisamente non un spazio immenso, trattandosi di
appena tre nomi, e precisamente
Townhouse (Cairo),
Al Ma’amal (Palestina) e
Darat al Funun (Gordania). Sfortunatamente
quest’iniziativa è andata quasi completamente deserta, sterilizzandola per così
dire e invalidandone parzialmente il valore di confronto fra il pubblico degli
appassionati e il mondo dei professionisti dell’arte contemporanea.
Gli eventi collaterali annoverano due
mostre,
Disorientation II e
Signature, ampiamente
mediatizzate, anche se forse solo su scala locale, se alla performance
inaugurale della prima, a opera di
Tarek Atoui, i presenti
erano quasi esclusivamente gli habitué della Biennale di Sharjah. Del resto,
questa mostra (la prima a essere organizzata sulla famosa Saadyiat Island,
destinata a ospitare, fra gli altri, il Louvre e il Guggenheim) nasce da una
cooperazione tra l’Abu Dhabi’s Tourism Development and Investment Company e la
Sharjah Art Foundation.
Prima di entrare nell’ambito di
Disorientation sgombriamo però
il campo dall’altro soggetto,
Signature, un’infelice riproduzione su
scala ridotta (entro i limiti di uno stand fieristico!) della precedente
Emirati
Expressions, ugualmente curata da Anne Baldassari: una concentrazione
che non reca alcun vantaggio ai giovani artisti locali nuovamente riproposti,
senza voler neppure entrare nel merito delle ragioni che possono indurre gli
organizzatori a riproporre lo stesso concept a distanza di appena qualche mese.
Disorientation II si richiama
anche nominalmente allo show
DisORIENTation, curato per la
berlinese Haus der Kulturen der Welt dallo stesso Jack Persekian. Ma con un
rovesciamento di visuale: se la mostra del 2003 poneva a confronto la
prospettiva voyeuristica che l’occidentale proietta sul Medio Oriente con il
radicalismo di quest’ultimo, l’episodio “II” presenta il punto di vista di chi
sta dentro (ma quasi tutti gli artisti vivono da anni in Europa o negli
States!), partendo dall’“
era del presidente egiziano Jamal Abdel-Nasser come
momento di rottura in cui le ripercussioni del fallimento del piano di unità
pan-araba avrebbe fratturato delle strutture già fragili”,
in tal modo
contrapponendo “
l’epoca utopica con la realtà di oggi”.
Con la sola eccezione della
D II
Series di
Tarek Al Ghussein, commissionata per l’occasione, parecchi degli altri
lavori (
Present tense di
Mona Hatoum;
Beirut caoutchouc di
Marwan
Rechamoui;
Qalandia 2047 di Wafa Hourani) hanno goduto di
ampio riconoscimento internazionale e sono stati spesso scelti in quanto
“rappresentativi” delle problematiche mediorientali. Crea sempre un certo
imbarazzo quando i curatori occidentali cercano di venire a compromessi con la
varietà di temi e produzioni sviluppati dagli artisti “arabi”, per lo più
semplificando un panorama che offre un numero di opzioni decisamente più ampio
di quanto si voglia lasciar credere. Ma disturba decisamente di più quando
quello stesso approccio è abbracciato e condiviso dai curatori mediorientali,
gli stessi cui spetterebbe andare oltre lo sguardo tuttora convenzionale,
orientalistico e stereotipato che gli specialisti occidentali continuano a
riservare al mondo dell’arte contemporanea mediorientale, quasi si trovassero
di fronte a un teorema da dimostrare.
Nella migliore delle ipotesi, le opere
d’arte recano molteplici messaggi, eppure stentatamente possono corrispondere a
concetti diversi e soddisfare prospettive differenti. Sia detto
incidentalmente, la condizione stessa di non essere politicamente orientato non
dovrebbe rappresentare un disvalore, visto che in ultima analisi non si dovrebbe
presumere che l’arte sia ideologica, per quanto sia spesso politicamente
impegnata.
I lavori in mostra sono per lo più
scarsamente polemici, persino intimistici (
On red nails, palm trees and
other icons di
Hala Elkoussy, già visto quest’anno alla Sharjah Biennial)
o non diretti esclusivamente a criticare il mondo arabo (come nel caso della
serie fotografica
Rochers carrés di
Kader Attia, che crea un
vivido parallelo fra la mancanza di prospettive che caratterizza i giovani
algerini, ma anche i coetanei delle nostre periferie metropolitane); e “
un
certo sdegno nei confronti della disperata e imperdonabile situazione di
perdita e conflitto in cui versa oggi il mondo arabo” è
paradossalmente palpabile piuttosto nel lavoro
Massaker della
documentarista tedesca
Monika Borgmann, la sola europea in mostra.
C’è da chiedersi per quale motivo l’arte
contemporanea non possa resistere alla tentazione che caratterizza tanto
cattivo cinema, ossia creare seguiti ai successi di botteghino, una tendenza
francamente disgraziata e delusoria già sul grande schermo. Perché o c’è un
chiaro intento a priori
e la realizzazione di più eventi legati da un più o
meno esile
fil rouge corrisponde a un criterio curatoriale dichiarato;
oppure il procedimento inverso, che consiste in questa mania di organizzare un
secondo evento che nominalmente si richiama a un antecedente e sembra piuttosto
rivelare una preoccupante mancanza d’immaginazione e un malcelato desiderio di
soddisfare tutti.