Anche quest’ anno, dunque, la fiera s’è
fatta, anticipata di qualche settimana rispetto alle scorse edizioni e
coincidente con una serie di eventi che, come ormai quasi ovunque si tende a
fare, dovrebbero giustificare la trasferta ad Abu Dhabi da parte di visitatori
– semplici appassionati d’arte o collezionisti – e giornalisti.
Già, perché i galleristi in effetti
qualche motivo in più ce l’avevano per presenziare. La TDIC – Tourism
Development and Investment Company, che organizza la manifestazione insieme
all’Abu Dhabi Authority for Culture and Heritage, ha messo a disposizione d’un
numero ovviamente imprecisato di gallerie stand e spazi espositivi gratuiti al
fine, da una parte, di incoraggiare la partecipazione di galleristi altrimenti
alquanto riluttanti; dall’altra, conseguentemente, di gonfiare i numeri di una
fiera che, a dirla tutta, proprio non ce la fa a decollare.
L’altro stratagemma per far lievitare i
volumi di vendita della manifestazione, da pubblicizzare successivamente come
un vero e proprio biglietto da visita, è consistito nel condizionare i
potenziali acquirenti (specie quelli istituzionali) e di vincolarne gli
acquisti ai canali della Abu Dhabi Art Fair. In altre parole, i collezionisti
di calibro si sono visti costretti ad acquistare attraverso le gallerie
partecipanti alla fiera senza potersi rivolgere direttamente agli artisti, i
quali, a loro volta, han dovuto accettare la mediazione delle gallerie,
inviando loro una pre-selezione dei lavori sui quali i collezionisti avevano
messo gli occhi attraverso website e cataloghi.
Si è trattato di una clausola il cui
effetto è stato tuttavia quanto mai proficuo, se persino i curatori del Guggenheim
Abu Dhabi hanno acquisito una serie di lavori seminali di Hassan Sharif attraverso gallerie presenti in mostra e non
direttamente dalla fondazione che lo rappresenta.
Si è molto parlato della crescita qualitativa delle gallerie partecipanti,
con nomi quali David Zwirner, Gagosian,
Acquavella, Thaddaeus Ropac, Haunch of Venison, Hauser & Wirth, Tony
Shafrazi, White Cube (la maggior parte delle quali peraltro già presente lo
scorso anno), rivaleggiando quanto alla tempistica con la nostrana Artissima, di cui a Dubai si sono,
guarda un po’, tessute le lodi. Infatti, la neo-nominata direttrice di ArtDubai, Antonia Carver, dopo aver
presenziato come doveroso alla serata inaugurale di Abu Dhabi Art, si è
involata verso Torino per esplorare l’interpretazione alla Manacorda della
fiera più osservata d’Italia, tornando con una serie di idee e suggerimenti di
cui coglieremo forse i frutti fra qualche mese, in primavera, come d’obbligo
quando si parla di primizie.
Ma torniamo alla
proposta, all’offerta che dovrebbe essere ugualmente uno sprone in un Paese in
cui le più frequentate occasioni per accostarsi all’arte contemporanea
occidentale rimangono pur sempre le fiere. Quest’anno più che nelle passate
edizioni si è imposta la presenza dei classici, fra gli artisti moderni come
fra quelli contemporanei, a tutto svantaggio degli emergenti, qui totalmente
negletti. Gli immancabili Picasso, Frank Stella, Richard Serra, Daniel Buren,
Basquiat e Andy Warhol hanno affiancato i non meno imperdibili Shirin Neshat, Mona Hatoum, Ai Weiwei, Dennis Hopper, Damien Hirst, Anish Kapoor
e Louise Bourgeois.
Come sempre, pochi i
nomi di artisti locali veramente contemporanei, se si eccettua la presenza
moltiplicata di Abdulnasser Gharem
(di cui si segnala in particolare il bel No
or bad signal), artista saudita già visto a Venezia durante l’ultima Biennale, e il ritorno negli emirati
dell’indiana Bharti Kher, qui
rappresentata da Hauser & Wirth, oltre al ricordato Hassan Sharif, di cui Salwa Zeidan ha fugacemente proposto una serie
di performance ed esperimenti dell’inizio degli anni ‘80.
Sembrerebbe totalmente mancare
quest’anno una progettualità concreta sfociante in un appiattimento sulla
nozione commerciale che non ha francamente giovato alla fiera. Pochi gli eventi
collaterali da sottolineare, contrariamente allo scorso anno, quando la
connotazione non profit e puramente informativa aveva pur goduto di una certa
attenzione (anche quest’anno gli si è dedicato uno spazio, ma talmente in
sordina da passare completamente inosservato).
A margine, una paio di mostre ugualmente
ospitate negli spazi dell’Emirates Palace dalla caratterizzazione
diametralmente opposta tanto da parere la visualizzazione di una dimostrazione
a tesi: da una parte Oeuvres
Contemporaines 1964-1966, che ha visto accostati Alberto Giacometti e Daniel
Buren entro uno spazio bianco di abbacinante essenzialità; dall’altra Opening the doors: collecting Middle Eastern
Art, una mostra bazar in cui il
pregio di alcuni dei lavori esposti risulta totalmente liquefatta nella
moltitudine e nella caoticità di un accrochage che nulla ha da spartire con il
concetto di curatela.Numerosi come sempre gli incontri a
latere, la formula delle discussioni collettive essendo ormai abbastanza
seguita anche localmente. Talking Art ha
visto quest’anno la partecipazione di figure ragguardevoli della scena
artistica mondiale quali Emilia Kabakov,
Jeff Koons e Paul Schimmel, il curatore capo del Museum of Contemporary Art di
Los Angeles, affiancati da rappresentanti di Bonhams, Christie’s e Sotheby’s a
rafforzare la presenza commerciale e a sostenere una vocazione al collezionismo
ancora interamente da consolidare.
di avviare un discorso sul collezionismo le cui ricadute non siano puramente
teoriche. Perché – si chiedono in modo ricorrente gli artisti locali che non
trovano spazio a livello commerciale – la ricca borghesia iraniana acquista gli
artisti iraniani e quella indiana gli artisti indiani, mentre la pur sempre
ricchissima classe dirigente dei Paesi del Golfo continua a ignorare i suoi
compatrioti? Una domanda che da sola merita un ricco premio…
Opening
the Doors ha per lo meno questo merito, di porre la questione, di inoculare un
dubbio, di sollevare il velo su un tabù socio-culturale.Infine una parola sulla attesissima Saadiyat
Island, che anche quest’anno ospita una mostra di riguardo: RSTW (un acronimo ottenuto dalle
iniziali degli artisti presentati) espone una selezione della collezione
Gagosian di artisti americani rappresentanti della Pop Art. Rauschenberg, Ruscha, Serra, Twombly, Warhol e Wool fanno
bella mostra di sé preparando il pubblico a un programma di esposizioni a
venire di cui si inizia ad assaporare il gusto. Del resto, la Pop Art rimane
per antonomasia uno dei capitoli più frequentati dell’arte moderna, un mix di
cultura “nobile” e di massa privato del carattere intimidatorio proprio della
prima e incline a indulgere all’accessibilità propria della seconda.
Un atteggiamento abbracciato su scala
nazionale dai paesi del Golfo, che si imbellettano nel tentativo di vendere
un’immagine di sé che i più continuano a ritenere puramente accessoria.
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ArtDubai
2010
dal
4 al 7 novembre 2010
Abu Dhabi Art Fair 2010
Info: www.abudhabiartfair.ae
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