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18
aprile 2008
fiere_resoconti Art Dubai 2008
fiere e mercato
L’arte contemporanea a Oriente. Meglio, nel Medio Oriente. Nel patinato paradiso di Dubai, dove circolano ingenti quantità di denaro e di merci prestigiose, l’arte non poteva mancare. E se un museo ancora non è in progetto, la fiera c’è eccome. E riserva alcune interessanti sorprese. Mentre l’Italia è come sempre presente, con tre gallerie da Torino, Toscana e Roma...
Il colpo grosso c’è stato subito. È arrivato un agente di Mr. Saatchi e, staccando un assegno di appena 8mila dollari, si è portato a casa l’opera ben riuscita e piuttosto furba di Huma Mulji, giovane artista pakistana autrice di Arabian delight, un cammello tassidermizzato e infilato dentro una valigia nera. Così è iniziata una delle fiere d’arte contemporanea più ricche che ci siano su piazza: ArtDubai. Settanta gallerie presenti, un buon punto d’osservazione per una scena artistica che ancora si conosce poco, il Medio Oriente (territorio che, come spesso accade in arte, si dilata sensibilmente e questa volta va dall’Egitto al Pakistan), un ottimo livello di proposte e un pubblico molto internazionale che, tra un gran fruscio di soldi, si muove in una delle città più surreali del pianeta.
Già la location della fiera, la Madinat Arena è un buon biglietto da visita di Dubai. Di fronte si staglia la grande vela panciuta del grattacielo Burj al-Arab, albergo quasi inaccessibile, dove anche per bere un Martini bisogna prenotare, ma dove può capitare di assistere alla finale del torneo di tennis che, da queste parti, usano disputare sulla terrazza dell’ultimo piano. Appena usciti dall’Arena si è di fronte al mare, su una spiaggia finissima, dove pascolano occidentali più o meno in carne. Madinat Arena rientra nel complesso di Madinat Jumeirah: finti suq, canali d’acqua, ponti e luci romantiche da mille e una notte versione terzo millennio, è uno dei luoghi di Dubai che, come tutti gli altri, si raggiunge solo in auto. Anche se i vari distretti sono molto vicini, le strade a Dubai, città che si espande a macchia di leopardo apparentemente senza un master plan, sono più larghe che a Los Angeles e non ci sono marciapiedi. Del resto, che ci starebbero a fare i marciapiedi, visto che la città si sviluppa tutta in verticale, dando il meglio di sé tra grattacieli specchiati, capricciosi, sinuosi e tutto fuorché eco-compatibili, mentre ad altezza d’uomo è un disastro? O meglio: il nulla, tra piante appena piantate e ancora fasciate, sassi, calcinacci, recinzioni da lavori in corso.
Negli oltre ottocento grattacieli in costruzione a Dubai, cifra che colloca questo emirato al vertice del guinness delle città verticali, non c’è neanche l’ombra di un museo. Strano, eh? Si fa un gran parlare di come costruire le città della cultura (argomento anche di una delle tavole rotonde del Global Forum della fiera), si individua nel museo uno dei motori più aggressivi per realizzare questa nuova identità urbana e poi, proprio qui, dove non mancano i soldi e dove c’è appetito di tutto, mancano i musei. Che invece abbonderanno nella vicina Abu Dhabi, con il Louvre che sarà costruito da Jean Nouvel, il Guggenheim da Gehry, il Performing Arts Center da Zaha Hadid, il Museo Marino da Tadao Ando e così via archisteggiando.
Ma a Dubai c’è la fiera. Ovvero, il mercato. Perché Dubai, da scalo aeroportuale degli anni ‘70, negli anni ‘90 si è trasformata in scalo finanziario, lanciandosi come la nuova no-tax area del globo generosa di attrattive, dove si vende e si compra di tutto, basta che siano merci pregiate. E l’arte contemporanea, anche in un Paese dove il collezionismo è quasi assente e i dealer cominciano ad affilare le unghie solo oggi, è una di queste.
Non a caso Mr. Saatchi ha comprato pakistano. Il paese ospite ad ArtDubai è stato proprio il Pakistan. Perché? È stato chiesto in conferenza stampa ai direttori, l’inglese John Martin, ex gallerista e ideatore della fiera, l’indiana Savita Apte, storica dell’arte contemporanea asiatica e consulente di Sotheby’s, e Frederic Sicre, che finanzia la fiera con Abraaj Capital. “Perché è un Paese pieno di sorprese, molto distante dal disastro descritto dai media occidentali che lo vedono preda di terroristi e di fanatici, e dove il livello artistico oggi è molto alto”, ha risposto Sicre.
Tutto vero. Almeno stando a Desperately seeking paradise, eccellente vetrina curata da Salima Hashmi, critica e docente di arte a Lahore di solida esperienza, che ha confermato alcuni nomi come Rashid Rana, la stessa Huma Mulji, Bani Abidi e Faiza Butt, già accaparrate dalla potente Green Cardamon di Londra e già viste, Mulji e Abidi, in Italia alla mostra Subcontingente della Fondazione Sandretto. Ma che soprattutto ha rivelato nuovi talenti: Farida Batool, che usa la fotografia riuscendo a piegare il racconto della realtà a un linguaggio poetico; le coraggiose e giovanissime artiste che hanno dato vita al Community project, centrato su quello che è un autentico caso di apartheid, i 700mila lavoratori indiani, pachistani, bengalesi e cingalesi che costruiscono Dubai e che sono rigidamente separati dai ricchi arabi. Le ragazze sono andate nelle bidonville dove si accatastano gli operai e li hanno fotografati, e il ricavato delle vendite andrà alle famiglie nei loro paesi d’origine. Un atto quasi di sfida, insomma, in un Paese, come il Pakistan, che non è confessionale ma neanche laico e in trasferta in un altro Paese, l’emirato di Dubai, retto da una monarchia assoluta.
Ma i meriti di queste artiste, che staccano di gran lunga i colleghi uomini, incapaci di liberarsi di un orizzonte visivo un po’ vecchio, non sono solo politici. Come altre figure di questa fetta di mondo, rivelano un linguaggio maturo, pieno, saziante, con caratteristiche simili, in qualche modo, a quelle che ci mostrano da qualche anno gli artisti indiani. Altra cosa interessante di questa fiera, che il mercoledì pomeriggio ha riservato un’anteprima alle donne, per cui Madinat Arena si è riempita di studentesse d’arte, tutte a fotografare e disegnare nonostante l’ingombro dei chador, è stata la scarsa attenzione per gli artisti cinesi e il grande risalto dato invece agli artisti indiani. A parte le grandi star come si avviano a diventare Jitish Kallat e Shilpa Gupta, che ha reso omaggio al recente matrimonio con un’opera tempestata di diamanti (Don’t steel my happiness, in vendita per 74mila dollari alla Galerie Volker Diehl di Berlino), e come è Subodh Gupta, rappresentato dalla Continua di San Gimignano.
La galleria toscana è una delle sole tre gallerie italiane presenti insieme a Giorgio Persano di Torino, che tra le proposte schiera la giovane afgana Lida Abdul, e Oredaria di Roma, che a Dubai ha trovato una giovanissima leva araba, Reem Al Ghaiti. Si sono anche visti tanti artisti ancora poco conosciuti in Europa e molto interessanti nei prezzi. Le gallerie che li propongono si sono meritate a pieno titolo un posto di rilievo sulla scena della ricerca internazionale: Sakshi Gallery, prima in assoluto a proporre nuovi talenti, e Chemould Prescott Road, entrambe di Mumbai, oltre a Espace di Delhi. Presso queste gallerie, un buon artista indiano ancora non baciato dalla fama si può acquistare per 6-7mila euro, mentre ce ne vogliono 15mila per un trittico di Sheba Chhachhi, che ha appena concluso una bella personale alla Nature Morte di Peter Nagy a Delhi, e di cui la Walsh Gallery di Chicago ha proposto attraenti lavori. Oltre agli indiani, si sono visti anche diversi coreani, proposti anche dalle poche gallerie di Dubai (Artspace, B21, Green Art, The Third Line), artisti sempre su un crinale un po’ scivoloso, laddove il virtuosismo tecnologico si sposa a una ricerca un po’ forzata dell’ironia. È il caso di Lee Nam, che fa lacrimare la ragazza dell’orecchino di perle di Vermeer e che fa scendere un’abbondante nevicata su un tipico paesaggio orientale.
Ma ArtDubai, anche se per la prima volta si sono viste gallerie siriane come Atassi, tunisine (El Marsa), iraniane (Silk Road), non è solo oriente. L’australiana Galleries Direct fa vedere una merce piuttosto rara: le opere di alcuni aborigeni accanto alle fotografie molto belle di Maree Azzoppardi. Mentre sul versante occidentale si ritrovano importanti gallerie come Albion di Londra, Bolsa de Arte di Porto Alegre, Christine Koenig di Vienna, Distrito Cu4tro di Madrid, Filomena Soares di Lisbona, Chantal Crousel di Parigi, Torch di Amsterdam.
E poi ArtDubai, fedele alla missione che ormai caratterizza le fiere più prestigiose, non è solo opere. Nel Global Forum che ha accompagnato i cinque giorni della fiera (preview compresa) si sono avvicendati artisti come Tony Cragg, che ha sviscerato lo statuto dell’oggetto nell’arte di oggi, Daniel Buren, Ai WeiWei, Lawrence Weiner; e curatori e critici come Maria de Corral e Catherine David, direttori di museo (Glenn Lowry), esperti di mercato, dealer, in incontri che hanno trattato di musei e città, di collezionismo.
Appuntamento per il prossimo anno quando, c’è da scommetterci, ArtDubai crescerà ancora (dal 2007 al 2008 le gallerie sono passate da 40 a 70) dal punto di vista del pubblico e del prestigio. Per una fiera che già si colloca fra gli appuntamenti cool dell’imperdibile mondo dell’arte.
Già la location della fiera, la Madinat Arena è un buon biglietto da visita di Dubai. Di fronte si staglia la grande vela panciuta del grattacielo Burj al-Arab, albergo quasi inaccessibile, dove anche per bere un Martini bisogna prenotare, ma dove può capitare di assistere alla finale del torneo di tennis che, da queste parti, usano disputare sulla terrazza dell’ultimo piano. Appena usciti dall’Arena si è di fronte al mare, su una spiaggia finissima, dove pascolano occidentali più o meno in carne. Madinat Arena rientra nel complesso di Madinat Jumeirah: finti suq, canali d’acqua, ponti e luci romantiche da mille e una notte versione terzo millennio, è uno dei luoghi di Dubai che, come tutti gli altri, si raggiunge solo in auto. Anche se i vari distretti sono molto vicini, le strade a Dubai, città che si espande a macchia di leopardo apparentemente senza un master plan, sono più larghe che a Los Angeles e non ci sono marciapiedi. Del resto, che ci starebbero a fare i marciapiedi, visto che la città si sviluppa tutta in verticale, dando il meglio di sé tra grattacieli specchiati, capricciosi, sinuosi e tutto fuorché eco-compatibili, mentre ad altezza d’uomo è un disastro? O meglio: il nulla, tra piante appena piantate e ancora fasciate, sassi, calcinacci, recinzioni da lavori in corso.
Negli oltre ottocento grattacieli in costruzione a Dubai, cifra che colloca questo emirato al vertice del guinness delle città verticali, non c’è neanche l’ombra di un museo. Strano, eh? Si fa un gran parlare di come costruire le città della cultura (argomento anche di una delle tavole rotonde del Global Forum della fiera), si individua nel museo uno dei motori più aggressivi per realizzare questa nuova identità urbana e poi, proprio qui, dove non mancano i soldi e dove c’è appetito di tutto, mancano i musei. Che invece abbonderanno nella vicina Abu Dhabi, con il Louvre che sarà costruito da Jean Nouvel, il Guggenheim da Gehry, il Performing Arts Center da Zaha Hadid, il Museo Marino da Tadao Ando e così via archisteggiando.
Ma a Dubai c’è la fiera. Ovvero, il mercato. Perché Dubai, da scalo aeroportuale degli anni ‘70, negli anni ‘90 si è trasformata in scalo finanziario, lanciandosi come la nuova no-tax area del globo generosa di attrattive, dove si vende e si compra di tutto, basta che siano merci pregiate. E l’arte contemporanea, anche in un Paese dove il collezionismo è quasi assente e i dealer cominciano ad affilare le unghie solo oggi, è una di queste.
Non a caso Mr. Saatchi ha comprato pakistano. Il paese ospite ad ArtDubai è stato proprio il Pakistan. Perché? È stato chiesto in conferenza stampa ai direttori, l’inglese John Martin, ex gallerista e ideatore della fiera, l’indiana Savita Apte, storica dell’arte contemporanea asiatica e consulente di Sotheby’s, e Frederic Sicre, che finanzia la fiera con Abraaj Capital. “Perché è un Paese pieno di sorprese, molto distante dal disastro descritto dai media occidentali che lo vedono preda di terroristi e di fanatici, e dove il livello artistico oggi è molto alto”, ha risposto Sicre.
Tutto vero. Almeno stando a Desperately seeking paradise, eccellente vetrina curata da Salima Hashmi, critica e docente di arte a Lahore di solida esperienza, che ha confermato alcuni nomi come Rashid Rana, la stessa Huma Mulji, Bani Abidi e Faiza Butt, già accaparrate dalla potente Green Cardamon di Londra e già viste, Mulji e Abidi, in Italia alla mostra Subcontingente della Fondazione Sandretto. Ma che soprattutto ha rivelato nuovi talenti: Farida Batool, che usa la fotografia riuscendo a piegare il racconto della realtà a un linguaggio poetico; le coraggiose e giovanissime artiste che hanno dato vita al Community project, centrato su quello che è un autentico caso di apartheid, i 700mila lavoratori indiani, pachistani, bengalesi e cingalesi che costruiscono Dubai e che sono rigidamente separati dai ricchi arabi. Le ragazze sono andate nelle bidonville dove si accatastano gli operai e li hanno fotografati, e il ricavato delle vendite andrà alle famiglie nei loro paesi d’origine. Un atto quasi di sfida, insomma, in un Paese, come il Pakistan, che non è confessionale ma neanche laico e in trasferta in un altro Paese, l’emirato di Dubai, retto da una monarchia assoluta.
Ma i meriti di queste artiste, che staccano di gran lunga i colleghi uomini, incapaci di liberarsi di un orizzonte visivo un po’ vecchio, non sono solo politici. Come altre figure di questa fetta di mondo, rivelano un linguaggio maturo, pieno, saziante, con caratteristiche simili, in qualche modo, a quelle che ci mostrano da qualche anno gli artisti indiani. Altra cosa interessante di questa fiera, che il mercoledì pomeriggio ha riservato un’anteprima alle donne, per cui Madinat Arena si è riempita di studentesse d’arte, tutte a fotografare e disegnare nonostante l’ingombro dei chador, è stata la scarsa attenzione per gli artisti cinesi e il grande risalto dato invece agli artisti indiani. A parte le grandi star come si avviano a diventare Jitish Kallat e Shilpa Gupta, che ha reso omaggio al recente matrimonio con un’opera tempestata di diamanti (Don’t steel my happiness, in vendita per 74mila dollari alla Galerie Volker Diehl di Berlino), e come è Subodh Gupta, rappresentato dalla Continua di San Gimignano.
La galleria toscana è una delle sole tre gallerie italiane presenti insieme a Giorgio Persano di Torino, che tra le proposte schiera la giovane afgana Lida Abdul, e Oredaria di Roma, che a Dubai ha trovato una giovanissima leva araba, Reem Al Ghaiti. Si sono anche visti tanti artisti ancora poco conosciuti in Europa e molto interessanti nei prezzi. Le gallerie che li propongono si sono meritate a pieno titolo un posto di rilievo sulla scena della ricerca internazionale: Sakshi Gallery, prima in assoluto a proporre nuovi talenti, e Chemould Prescott Road, entrambe di Mumbai, oltre a Espace di Delhi. Presso queste gallerie, un buon artista indiano ancora non baciato dalla fama si può acquistare per 6-7mila euro, mentre ce ne vogliono 15mila per un trittico di Sheba Chhachhi, che ha appena concluso una bella personale alla Nature Morte di Peter Nagy a Delhi, e di cui la Walsh Gallery di Chicago ha proposto attraenti lavori. Oltre agli indiani, si sono visti anche diversi coreani, proposti anche dalle poche gallerie di Dubai (Artspace, B21, Green Art, The Third Line), artisti sempre su un crinale un po’ scivoloso, laddove il virtuosismo tecnologico si sposa a una ricerca un po’ forzata dell’ironia. È il caso di Lee Nam, che fa lacrimare la ragazza dell’orecchino di perle di Vermeer e che fa scendere un’abbondante nevicata su un tipico paesaggio orientale.
Ma ArtDubai, anche se per la prima volta si sono viste gallerie siriane come Atassi, tunisine (El Marsa), iraniane (Silk Road), non è solo oriente. L’australiana Galleries Direct fa vedere una merce piuttosto rara: le opere di alcuni aborigeni accanto alle fotografie molto belle di Maree Azzoppardi. Mentre sul versante occidentale si ritrovano importanti gallerie come Albion di Londra, Bolsa de Arte di Porto Alegre, Christine Koenig di Vienna, Distrito Cu4tro di Madrid, Filomena Soares di Lisbona, Chantal Crousel di Parigi, Torch di Amsterdam.
E poi ArtDubai, fedele alla missione che ormai caratterizza le fiere più prestigiose, non è solo opere. Nel Global Forum che ha accompagnato i cinque giorni della fiera (preview compresa) si sono avvicendati artisti come Tony Cragg, che ha sviscerato lo statuto dell’oggetto nell’arte di oggi, Daniel Buren, Ai WeiWei, Lawrence Weiner; e curatori e critici come Maria de Corral e Catherine David, direttori di museo (Glenn Lowry), esperti di mercato, dealer, in incontri che hanno trattato di musei e città, di collezionismo.
Appuntamento per il prossimo anno quando, c’è da scommetterci, ArtDubai crescerà ancora (dal 2007 al 2008 le gallerie sono passate da 40 a 70) dal punto di vista del pubblico e del prestigio. Per una fiera che già si colloca fra gli appuntamenti cool dell’imperdibile mondo dell’arte.
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adriana polveroni
dal 19 al 22 marzo 2008
Art Dubai 2008
Madinat Arena – Dubai
Info: www.artdubai.ae
[exibart]
Tutto bene, meravigliosamente bene … ma cavolo
le tre italiane di “promesse nazionali” proprio non ne avevano?
Immaginate gli Emirati Arabi che partecipano ad una importante fiera eno-gastronomica in italia e presentano formaggi e vini autoctoni.
E’ sempre la stessa solfa!!!!!!!!!
complimenti dopo un mese dalla chiusura di Art Dubai qualcuno si e’ svegliato e con la solita “velocita’” italiana (identica a quella degli Emirati!!!!) si e’ accorto che a Dubai era successo qualcosa nel mondo dell’arte!! Cari signori l’Europa e’ vecchia , e’ lenta, e’ ormai solo un sito archeologico con tutti i suoi abitantiincentrato su se stesso e senza nessun futuro!