Inizia con un tuffo in piscina,
letteralmente, la quarta edizione di ArtDubai. E una serie di pozze d’acqua è
quanto resta delle sculture su ghiaccio realizzate per la serata inaugurale
dall’artista iraniano
Farhad Moshiri, a Dubai un’icona, nell’ambito di un progetto
sull’effimero e sulla spettacolarità curato da Bidoun Projects.
Indubbiamente quest’ anno il
morale è alto. Rappresentanti di alcune fra le istituzioni europee e americane
più prestigiose (fra le altre, la nostrana
Collezione Peggy Guggenheim, la
Fondation Louis Vuitton
, che presto aprirà il suo spazio parigino firmato
Frank
Gehry), curatori
indipendenti e giornalisti di testate “referenziali” (da
Flash Art a Anthony Haden-Guest
per il
Financial Times) tornano a visitare Dubai dopo la
crisi di fiducia sperimentata lo scorso anno. Se non si tratta proprio della
prova del nove, rimane comunque un indicatore abbastanza attendibile.
I vincitori dell’Abraaj Capital
Art Prize –
Kader Attia,
Hala Elkoussy e
Marwan Sahmarani – fanno tutti e tre i conti con il mito. Un mito
dichiarato nel titolo stesso di due progetti:
History of a Myth: the Small
Dome of the Rock”
di Attia, curatela di Laurie Ann Farrell, è un lavoro concentrato in cui
l’amplificazione, la dilatazione, l’azzardo della rievocazione creano
disorientanti similitudini che di fatto possono intaccare il concetto di valore
dell’originale;
The Myths and Legends Room: the Mural di Elkoussy, curato da Jelle
Bouwhuis, indagando le modalità della propaganda politica, le inquadra
prospetticamente entro la rapida alterazione urbana subita dalla maggior parte
delle metropoli mediorientali. Implicito invece il richiamo nel confronto e nei
richiami culturali evocati:
The Feast of the Damned di Sahmarani, come spiega la
curatrice Mahita El Bacha Urieta, dichiaratamente si ispira a
Rubens, attualizzandone l’infernale
visione e ambientazione, qui proiettata su un piano socio-politico esteso.
Il Global Art Forum (che ha fra
l’altro ospitato Okwui Enwezor in conversazione con
El-Anatsui,
di cui in fiera si poteva
osservare il monumentale
In the world but don’t know the world?, presentato dalla londinese
October
Gallery; e
Dennis Oppenheim ad affiancare una
Alice Aycock straordinariamente efficiente
nella rievocazione dell’atmosfera creativa della New York anni ’70 e di cui si
è voluto riprodurre il celebre
Sand/Fans, appunto del 1971) rimane senza ombra di dubbio
l’attrattiva principale della fiera. Quest’anno due grandi temi sono stati
affrontati con una certa sistematicità: da un lato, il collezionismo e il
mecenatismo culturale e, dall’altro, il ruolo della critica d’arte, non in
termini di astrazione ma in modo strettamente e puntualmente contestualizzato.
Invitati ad illustrare i
principi-guida e le prospettive del collezionismo made in Uae, alcuni fra i più
coccolati
patron hanno incensato con poca discrezione il proprio pur essenziale ruolo di
promotori del mercato dell’arte locale. Diversamente da Abu Dhabi che, con il
supermediatizzato asse Louvre-Guggenheim, sembra aver imboccato la via del
pubblico – per quanto pubblico e privato sempre si confondano nei paesi del
golfo – Dubai è ancora saldamente appoggiato sui pilastri dell’iniziativa
privata.
E la critica d’arte? Diciamo solo
che le linee editoriali delle testate locali più “rispettate” e ambite non
permettono scarti e le recensioni sono per definizione lusinghiere e poco
analitiche, non dovendo impegnare i lettori in argomentazioni più o meno
intellettuali ma solo invitarli a consumare un prodotto di diversa natura
. Qualche timido segno di
trasformazione si può tuttavia cogliere:
Bidoun Projects, in collaborazione con il Dubai
Culture & Arts Authority, ha avviato da alcuni mesi il primo seminario di
scrittura critica specificamente indirizzato a chi voglia misurarsi (o già lo
faccia) con la produzione artistica contemporanea. Un progetto che nasce in
sordina ma che mira a creare un indotto indipendente che progressivamente
riesca a scardinare i meccanismi del determinismo culturale di Dubai.
Ma veniamo ai lavori in fiera.
Bisogna ammettere che quest’anno i galleristi sembrano aver deciso di correre
qualche rischio in più, una tendenza che avevamo già segnalato in riferimento
all’Abu Dhabi Art lo scorso autunno. Nonostante le sempre vincolanti restrizioni
della censura, si sono infatti visti alcuni lavori inattesi e interessanti
(oltre ai soliti
Fouad Elkhoury,
Mona Hatoum,
Shirin Neshat,
Akram Zaatari,
Michelangelo Pistoletto – addirittura proposto da due
delle tre gallerie italiane presenti – o agli astri crescenti
Timo Nasseri,
Youssef Nabil,
Zineb Sedira).
La berlinese
Caprice Horn presenta alcune delle composizioni “politiche” di
Abdulnasser Gharem, artista saudita visto a Venezia
la scorsa biennale nell’ambito della mostra
Edge of Arabia.
Oltre a
Under the same sky, lavoro un po’ troppo
auto-indulgente di
Luisa Rabbia (presentato dalla torinese
Giorgio Persano, che le
affianca
Mario Merz e
Lida Abdul) ugualmente politico è il messaggio lanciato da
Mounir Fatmi (per la londinese
Paradise
Row), che affronta senza preamboli il tema della violenza esercitata in
nome della religione e della difesa della cultura tradizionale islamica.
La libanese
Agial Gallery,
cambiando angolo
visuale,
presenta
una sola installazione,
Fair Skies, commissionata all’artista
Mahmoud Obaidi. Questo lavoro, misurandosi con
il tema delle difficoltà spesso incontrate dai viaggiatori identificabili come
mediorientali, gioca a molti livelli con il tema dell’identità, quella reale e
quella fittizia, quella scelta e quella imposta. Gioca con il tema
dell’anonimato, qui riproposto in un’accezione positiva di insospettabilità a
fronte della riconoscibilità che fa subito di un tipo un individuo “altro”. Si
tratta di un lavoro in bilico (e forse non perfettamente risolto) tra
rappresentazione figurativa e astratta, tra piacere ludico e sforzo concettuale
e la trovata del distributore di kit che permettono di assumere diverse
identità, dopo averci strappato un sorriso, ci pone di fronte alla
constatazione di quanto poco ci sia ancora consentito portare – di noi – in
viaggio.
Per completare il quadro delle
italiane (l’onnipresente
Continua e la ricordata Persano
sono delle veterane della fiera
del golfo),
Cardi Black Box ha optato per una scelta coraggiosa,
presentando alcuni
grandi formati di
Jörg Immendorf e una selezione di lavori concettuali di
Thomas Bayrle, lavori destinati a musei o a un
collezionismo francamente colto, entrambi sostanzialmente assenti dalla scena
locale.
La sola galleria
sold out? La tedesca
Christian Hosp,
con la sua scelta di lavori intimisti dell’indiano
Parul Thacker e della tunisina
Nadia
Kaabi-Linke,
rispettivamente caratterizzati da
un catturante e riflessivo impatto visivo.
La tedesca
Galerie Dorothea Van
Der Koelen (per
la prima volta ad ArtDubai, nonostante un’ormai relativamente lunga
frequentazione della scena artistica locale) propone una selezione di lavori di
Lore Bert oltre
ad alcune incisioni (sempre drammaticamente sotto rappresentate in fiera) di
Eduardo Chillida.
Per finire, le astrazioni naturalistiche
di
Liu Myoung-ho (Galleria
Hakgojae,
Seoul) come anche la tecnicamente ammaliante serie
alchemica di
Gábor Kerekes (
Nessim Galéria, Budapest), nella loro esaustiva
presentazione di varianti su un tema, nel primo caso, e di un sapere
enciclopedico ripercorso visivamente, nel secondo, sembrano sintetizzare lo
spirito stesso del collezionismo. Lo spirito che è poi alla base di una fiera
d’arte, a ben vedere.