Categorie: fiere e mercato

fiere_resoconti | Arte Fiera – Art First 4

di - 10 Febbraio 2009
Il vecchio modello generalista di Arte Fiera, malcelato dietro restyling che nel corso degli anni non ne hanno mutato sostanzialmente anima e identità, ha permesso una sorta di riunione degli stati generali del mercato: sotto lo stesso tetto si sono ritrovati gallerie di ricerca e mercanti, giovani operatori e professionisti navigati, nel campo dell’arte emergente, contemporanea, moderna e storica.
Le recenti derive del mercato dell’arte verso la diversificazione e la specializzazione indotte dalla globalizzazione hanno moltiplicato fiere, biennali, musei e via dicendo. E hanno influito anche sulle strategie delle fiere storiche, chi più chi meno. Quella di Bologna tutto sommato è tra quelle rimaste legate alla sua storia, saldamente ancorata al suo ruolo privilegiato di vetrina del mercato interno, nell’accezione più larga.
Una vetrina che quest’anno ha proposto una radicale riforma logistica, riuscita più nella teoria che nella pratica. Giusta l’idea di individuare quattro settori distinti: gallerie di arte storica e moderna, gallerie di arte contemporanea consolidate, gallerie emergenti e giovani gallerie con meno di cinque anni. Giusta la scelta di differenziare dimensioni e caratteristiche degli stand (raccolta la sezione dei giovani, ampia e ben illuminata quella dei big). Giusta la collocazione del padiglioncino degli editori sulla via di transito e giusta anche l’opzione del doppio ingresso, come a dire: se vuoi seguire l’ordine cronologico prendi l’entrata nord, se ti interessa il contemporaneo scegli la classica piazza Costituzione.
Alla fine però le lamentele non sono mancate, sia da parte dei visitatori spaesati che da parte degli operatori scontenti. Due attenuanti: innanzitutto va da sé che qualcuno di scontento lo si trova immancabilmente e poi, si sa, quando il visitatore-tipo trova modificato il percorso a lui familiare va nel panico, si perde come un bambinetto al centro commerciale… e spesso s’incazza.

Un paio di critiche almeno erano però legittime: la prima è che è inutile ampliare gli spazi se poi si creano imbuti come quello della zona dell’editoria; la seconda è che la ripartizione degli operatori nei diversi settori non è stata molto rigorosa. Così spesso s’incappava nel moderno sulla via del contemporaneo e viceversa. Un mischione che poteva essere evitato e che ha inevitabilmente danneggiato alcuni operatori. Tuttavia la strada è giusta, questione di dettagli. A seguire spigolature e curiosità tra gli stand.

GIOVANI GALLERIE

Precedenza ai giovani e cominciamo da Monitor, galleria romana tra le migliori sul fronte della ricerca, dove si constata la crescita di Francesco Arena. Non sarà cool come Tweedy, Velonis o Vascellari, ma negli ultimi due anni è giunto a elaborare un lavoro rigoroso, per giunta molto personale, fortemente radicato nella storia e nella tradizione italiana. La sua installazione ad angolo si compone di cinque oggetti d’uso quotidiano (una scatola, un pacchetto di sigarette, un pallet) compressi e schiacciati sotto fogli di feltro la cui dimensione complessiva è pari a quella del balcone di Palazzo Venezia, celebre pulpito di Mussolini.
Tra gli allestimenti più puliti ed equilibrati spicca quello di SpazioA, buona galleria che si sta facendo strada in quel di Pistoia accaparrandosi buoni talenti italiani, anche locali, come Chiara Camoni. Non tutti i suoi lavori sembrano centrati ma certamente i Notturni (monocromi grigi a grafite su carta) hanno un fascino remoto e romantico, senza fronzoli.
Terza segnalazione per il lavoro del giovane Federico Bianchi che mette a confronto tre generazioni di artisti aniconici. Radomir Damnjan, Giuseppe Armenia e Alexander Wolff. Quest’ultimo, il più giovane (Berlino, 1976), lavora ripercorrendo la tradizione estetica europea (Cubismo, Futurismo, Astrazione geometrica) riproducendola in forme impoverite e precarie, a suggerire un tentativo di riappropriazione identitaria i cui esiti non appaiono mai scontati.
Riflessione a margine sui giovani artisti, pensando al Premio Furla assegnato durante Art First ad Alberto Tadiello. Che sia bravo è fuor di dubbio. Però che nell’anno appena trascorso abbia fatto, all’incirca, con lo stesso lavoro, Triennale, Present Future ad Artissima, residence a Viafarini, alla BLM e vinto financo il premio Trieste Contemporanea appare quanto meno esagerato. C’è qualcosa d’insano nel sistema, facile a entusiasmarsi per la giovinezza e allergico alla maturità. Con modalità che fino a ieri erano estranee alla carriera artistica e più proprie alla musica pop…

ARTE CONTEMPORANEA

Marella continua nella sua ricerca ad ampio raggio di talenti. Questa è la volta dell’indonesiano Entang Wiharso, pittore non particolarmente dotato di cui qui si sono presentate sagome di alluminio tagliato che invece risultano particolarmente interessanti. Per il loro sapore antropologico e magico, in contrasto con il freddo materiale.
Radio Arte Mobile di Roma è una struttura versatile e flessibile. In linea con il suo spirito, allo stand presenta uno special project nato dal dialogo tra Maria Thereza Alves e Jimmie Durham: da un lato i fiori neri su carta della Alves, dall’altro gli interventi antimonumentali dell’artista cherokee.
Ottima idea l’ha avuta L’Elefante, rilanciando la figura di Aldo Tagliaferro, importante sperimentatore nel campo della fotografia a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Su questo fronte resta ancora molto da fare. Sta tentando di farlo anche Enrico Fornello con la collaborazione di Elena Re, curatrice della personale in galleria dedicata a Michele Zaza, di cui in fiera la galleria pratese proponeva una selezione.
Continuando con le riscoperte, interessante la scelta di Melesi di Lecco di esporre una serie di opere di uno dei maggiori rappresentanti del concettualismo russo, Dmitrij Prigov, mancato nel 2007: sono una serie di tecniche miste su pagine di quotidiani che criticano la mitizzazione della cultura comunista operata dai media.

È bene spezzare una lancia a favore delle cosiddette “gallerie di mercato” o “del mercato secondario”. Snobbate da operatori e collezionisti di ricerca, spesso è a loro che si debbono importanti operazioni di riscoperta, di selezione e ordinamento. Tornabuoni è, sotto questo profilo, certamente una di quelle importanti. Con lavori di Dorazio, Ceroli e un Paul Klee del ’34 (Kurbistlasche) a contorno, dimostra appieno questa tesi. Ma la bolognese Arte e Arte non le è stata da meno almeno sui lavori degli anni ’60 di Tano Festa e Schifano. In più si è concessa una minipersonale di Jan Fabre e ancor meglio ha fatto ritirando fuori il nome ingiustamente sottovalutato di Claudio Costa, la cui riflessione antropologica ha raggiunto punte di eccellenza e profondità che non lo fanno sfigurare al cospetto della ricerca poverista, cui per altro è stato molto vicino.
A proposito di riscoperte, vanno almeno citato il dinamismo di Enrico Prampolini e Mino delle Site visti da Edieuropa, ma anche i due amici Anselmo Bucci e Leonardo Dudreville, protagonisti del guppo Novecento.
Nella sezione delle gallerie più consolidate una menzione la merita lo stand di Alfonso Artiaco, a memoria uno degli allestimenti suoi migliori. Grazie soprattutto a due grandi trittici fotografici di Darren Almond: attraverso l’alternanza chiaroscurale, di positivo e negativo, un perfetto esempio della ricerca dell’artista sul trascorrere del tempo e il sublime teconologico. Tutt’intorno rade ma incisive presenze di Laib e Penone, particolarmente presente in questa edizione con lavori importanti (Tucci Russo ne portava una buona selezione), un ottimo risultato ottenuto dalla recente mostra al Mambo.

A proposito di allestimenti, da lodare il perfetto equilibrio della valenciana Luis Adelantado. Mettere insieme l’intimismo nevrotico di Sophie Calle (L’autobiographie Lame Rasoi, 1992) con il revisionismo grottesco di Folkert de Jong è un po’ come giocare d’azzardo. Eppure nel profondo si stabilisce una sorta di empatia tra i due.
Da 1000eventi, quasi nascosta, si trovava una piccola installazione di Samuel Rousseau: una candela (vera) accesa da una luce (finta, proiettata). Si chiama Un peu d’éternité e nella sua semplicità costituiva una sorta di nemesi dello spettacolo dell’effimero che gli girava vorticosamente intorno.
Visitare una fiera è un po’ come fare zapping. Non tutti i lavori riescono a bucare il video. Anche perché, in teoria, non dovrebbero mai nascere con il fine ultimo di essere esposti in una fiera (o no?). Così il rischio di imprimersi nella mente installazioni monumentali ed eclatanti e di perdersi alcuni interessanti gioielli è dietro l’angolo. Alla galleria De Carlo, ad esempio, il piccolo olio su carta di Spartacus Chetwynd si connotava per una forte verve sulfurea e retrò. Analogamente da Alessandra Bonomo uno dei lavori più suggestivi appariva una struttura di legni spezzati in grigio di Hamish Fulton, che rimanda al suo vagabondare solitario tra le montagne (Broken wood mountain skyline Dolomites, 1993-2007).

Da ultimo meritano un cenno le polaroid di Christopher Makos. Esposte da Photology, profondono tutto il clima dell’America di fine anni ’70 e ’80, con un intrigante scorcio sulla New York di Warhol, Basquiat e Haring.

ARTE MODERNA

Dal contemporaneo al moderno è come passare dalla confusione della tangenziale all’ora di punta alla quiete soffusa della campagna.
È il centenario del Manifesto e il Futurismo gli operatori non ce l’hanno fatto mancare di certo. Arte Centro, con il Dottori dagli anni ‘10 ai ’30 e un Nodo simultaneo di Boccioni del ’15, Cirulli, che si muove anche nei dintorni del gusto déco, Narciso con il focus sulla scena torinese. Una chiosa: da rileggere, a questo proposito, il documentato approfondimento di Maurizio Scudiero su queste pagine per farsi un’idea del grande fermento ma anche dei rischi che si corrono causa gli eccessi di entusiasmo indotti da queste celebrazioni.
Tornando agli stand, non può non essere citata quella che è stata una vera e propria mostra di un big: Prospero’s monster di Yinka Shonibare da James Cohan mostra la tendenza a cristallizzare in un linguaggio sempre più classico la riflessione storica sul colonialismo dell’artista anglo-nigeriano. Da segnalare anche un splendido Francis Alys del ’92 (Paisaje: Burro).

Per Mari e Monti
ha dedicato tutto lo stand a Sol LeWitt: negli States si stanno tenendo un paio di mostre epocali. Il percorso per la storicizzazione vera è iniziato, non sbagliano i collezionisti che puntano su di lui.
Un bravo se lo merita Il Ponte per la leggerezza e l’eleganza del suo stand, giocato nella penobra con la strana coppia Calzolari e Nannucci.
Da non mancare il magico e lirico The forest (1980) di Ross Bleckner da Crane Kalman, in buona compagnia con Miró e uno Still life del ’49 di Ben Nicholson.
In ordine sparso: Galleria d’Arte Maggiore ha sfruttato il traino della grande mostra di Morandi al Mambo per giocarsi le sue ottime carte in materia, Amedeo Porro ha sfoggiato una monumentale Battaglia di Fontana del ’51, una volta tanto accantonando gli inflazionati tagli, Tega ha risposto con un Mario Merz di quasi tre metri per tre, del ’75-’76, anche se la chicca è forse il Quasimodo genetis del ’56 di Max Ernst.

Chiudiamo con un paio di gallerie che si caratterizzano per il serio e continuo lavoro per la valorizzazione di alcuni artisti italiani ancora sottovalutati: lo Scudo di Verona, qui con Marco Gastini e Toti Scialoja e Otto di Bologna con l’ultimo Pizzi Cannella.

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alfredo sigolo

[exibart]

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  • talmente un bel mischione di confusione che sigolo si è dimenticato di segnalare gallerie importanti anche se non si chiamano de carlo (che guarda caso non se lo dimentica mai!) ma che fanno mercato da anni e sostengono le fiere.
    tutto troppo scontato. mai un articolo che dica veramente qualcosa.

  • Una recensione per lo sponsor o gli sponsor!!
    Cosa sarebbe poi il mercato secondario? i Basquiat e i Fontana, secondari...bah..
    bello dimenticarsi delle gallerie tedesche con un Kiefer straordinario da Ropac, poi tre Richter, i Polke...forse non hanno bisogno di avere sponsor loro..
    mentre De carlo certo, lui ha l'appoggio di certi intellettuali che diventano prezzolati dalle riviste che fanno le classifiche e se non sei d'accordo con loro sono guai, sono flash-insulti.
    In Italia i primi che devono crescere non sono le fiere, peraltro con una organizzazione sempre crescente, ma chi le guarda.
    Imparare da quelli oltre confine no?

  • Articolo confuso e noioso...ma parliamo di cose serie: non si è venduto quasi nulla in nessuno degli stand delle 4 categorie. Niente vendite di artisti fighi o fighetti e nemmeno degli artisti commerciali e di B&B. E per quanto si cerchi di coprire tutto questo, come nel tentativo di allontanare una sciagura, bisogna guardare in faccia alla realtà. Artfirst tracolla! Troppa roba per un periodo di "crisi". Una scusa per tutti di farsi un viaggio di nascosto in Malesia e non comperare più un'opera d'arte. Gli italiani preferiscono (purtroppo) veline, automobili e vestiti firmati.

  • si è venduto meno ma si è venduto, sopratutto in quelle gallerie di cui non parla mai Sigolo se non per dirne del male. ehehehe! tié, tié

  • Bravi a criticare la logistica, meno male che qualcuno ha il coraggio di dirlo: visitare questa fiera era estremamente difficoltoso, se non impossibile. Inutile proporre un po' tutto se l'effetto finale è quello di un centro commerciale. In tempi di crisi non sarebbe meglio proporre fiere almeno più raccolte, se non proprio selezionate? E al di là dei gusti e delle partigianerie, non sarebbe più bello visitare una fiera dove si possa girare fra le opere per ammirarle come si deve?

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