IL GIRO DELLE GALLERIE
Gli States
Dal punto di vista “topografico”, s’incontrava quasi per forza innanzitutto Foxx, con fotografie e sculture di Sterling Ruby. Proseguendo sulla East Coast, le tele su tele di David Noonan da Kordansky e lo studio sulla luce di Walead Beshty da China Art. La sovradimensionata Painter Inc. reggeva meglio sulle dimensioni ridotte dei lavori, si legga Thomas Zipp piuttosto che i ritratti monumentali dei lottatori messicani di Salomón Huerta; da notare altresì i “padiglioni” riflettenti di Wen Ju Lim, che paiono l’interpretazione orientale di Dan Graham, nonché l’Ed Ruscha in versione fotografica (assai meglio dei leziosi studi che presenta Gagosian a Davies street. Quel medesimo Gagosian che non pare essersi sforzato oltremisura per consegnare alla fiera uno stand all’altezza della propria storia). Godibile lo stand di Regen Projects, che punta su nomi sicuri: Pettibon, Matthew Barney e John Bock su tutti.
Dall’altro capo del Paese -si parla di New York City, va da sé- Kaplan sfodera un acrylic glass di Carsten Höller e la piccola scultura Infestation Piece (Maquette) di Simon Sterling. A seguire, in ogni senso, Liam Gillick e un Jonathan Monk che, assurto a fenomeno di moda che pare inaggirabile, non pare resistere alla pressione. Una bell’accoppiata la proponeva Salon 94, accostando i close-up di Marilyn Minter con la creatività installativa di Sylvie Fleury. Da Petzel, scansando il vernacolarismo piuttosto stantìo di Dirk Skreber, ci si godeva gli acquerelli fluo di Maria Lassnig e, quasi per contrappasso, gli orologi su cartone colorato di Jorge Pardo. Interlocutoria la prova di Matthew Marks, che si accontenta delle trovate di Robert Gober (l’Appuntamento con l’urologo), d’un Gary Hume e di un Darren Almond sottotono, d’una Nan Goldin che oramai s’è vista in infinite occasioni, dell’ennesimo Rondinone. Meglio l’understatement di Kreps, che -con gli strip film di diapositive di Ján Mancuska– ha fatto arrossare gli occhi a qualche visitatore. Stesso discorso vale per Metro Pictures: si puntasse su Isaac Julien piuttosto che su Louise Lawler.
Ottima Gladstone, dai ritratti fotografici di Catherine Opie all’accumulo d’olio di Victor Man, per giungere all’apice col Tripod 2007 di Hirschhorn e col sontuoso tavolo di Matthew Barney. Marian Goodman è riuscita a portare in fiera lavori più che passabili di Struth e di Orozco, oltre a una memorabile fotosequenza di Boltanski del 1974, un lightbox di Jeff Wall, le photogravure di Tacita Dean e una disorientante installazione di Kentridge. Calando sulla Terra, gustoso da Kasmin il confronto tra Frank Stella e la “pedina” cinomorfa di Santi Moix. Jack Hanley proponeva le linee naïf delle gouache di Keegan McHargue, i lavori dell’artista-editor Chris Johanson e -non si comprende perché relegata nello sgabuzzino- l’installazione pauperista di Colter Jacobsen. Tra i migliori dalla Grande Mela, Zwirner per i collage di Dzama e le video-armi di Alÿs, nonché per il dignitoso McCracken del 1986; e ancora, per il magnifico Autoritratto di Yan Pei-Ming (non certo per il doppio ritratto del medesimo, soggetto il Maurizio nazionale) e per la Saab 93 di Michael S. Riedel. (La manìa delle auto imperversa: è d’obbligo citare la fiammante Dodge Challenger che Richard Prince ha dotato di una generosa pulzella.)
(Quasi) personali
Intermezzo monografico. Per quei galleristi che hanno deciso di puntare tutto o quasi su un unico artista. Esiti piuttosto discutibili per Luhring Augustine con Tunga; Pia optava per Mai-Thu Perret, mentre la galleria-fondazione Foksal si aggiudicava uno degli acquisti della Tate per la propria collezione con Althamer. E ancora, Campaña privilegiava Qiu Shi-Hua e Wilson monopolizzava il proprio stand con l’ultimo film di Jesper Just (l’ingresso a un numero limitato di visitatori non invogliava certo alla visione). Eccesso glam per Jablonka con la coppia Arad–La Chapelle, mentre eccellente la delicata scelta di Eigen + Art con Birgit Brenner. Bonakdar si è invece concentrata sulla complessa ricerca coordinata da Mark Dion. Soggetto: i piccoli invetebrati; luogo: due cimiteri di Brompton.
I padroni di casa
In maggioranza londinesi e numericamente preponderanti, per lo jus soli più che per il livello delle proposte. Da Tsingou si notavano gli emetici bronzi di Jim Shaw e gli assai più gradevoli lavori su/con carta di Peter Callesen. Sprüth & Magers proponevano un’installazione di dimensioni museali di Jenny Holzer, ma senza alcun guizzo. Meglio allora un Kosuth d’annata. Fra i restanti i big: da Lisson spiccavano un trittico di Jemima Stehli, il luccicante diamondtraffickillers (2006) di Santiago Sierra e le “sculture” luminose di Tatsuo Miyajima. La très chic Frith Street -che in galleria ha una notevole personale di Tacita Dean– ha portato, oltre alla gurskiana tapestry di Craigie Horsfield, il nostro Bartolini. Alison Jacques esponeva la doratura sferica di Kiaer e un bel dittico su lightbox di Catherine Yass. Ha forse preso troppo il sopravvento il pivot Yayoi Kusama da Victoria Miro, soffocando gli scatti di Doug Aitken e soprattutto quelli seventies di Woodman. Discorso simile per Shave, che punta tutto o quasi su Altmejd, forte della presenza al padiglione canadese della Biennale. Lo stand meglio congegnato era quello di Sadie Coles -che al contempo inaugurava un nuovo spazio in South Audley Street con Stingel-, che allineava buone prove di Andrea Zittel, Lambie, Sarah Lucas e Barney. Fuori concorso la premiata ditta White Cube / Jay Jopling, che allestiva la consueta camera dei desideri con video di Taylor-Wood, cementi di Gormley e teschi di Hirst.
Per la serie “cadetta”, da Friedman si vedevano Shonibare e il frutto della collaborazione tra Hirschhorn e Steinweg; da Paley la “vulcanica” fusione di Dick Evans; da Herald gli inquietanti pupazzoni di Spartacus Chetwynd; da Taylor una grande scultura di Kiki Smith; da Reynolds ancora scultura, a firma di Nobuko Tsuchiya e ottimi lavori della prematuramente scomparsa Lucia Nogueira; da Dane i “millimetrici” Damasceno e il film in 16 mm di Paul Pfeiffer (che tornava da The Project). E ancora: Approach aveva la miglior scultura di Lipski; greengrassi tre minuscoli scatti di Gabellone; Corvi-Mora i disegni a carboncino di Naoyuki Tsuji. Strappava un sorriso il lampadario composto da occhiali da sole in plastica ideato da David Batchelor per Wilkinson, che mostrava pure una scultura di luce di Jacob Dahl Jürgensen. Last but not least, Max Wigram con il Kiss di Barnaby Hosking, composto da una scultura e da un video su schermo nero-viola, e con la video-installazione di Rosefeldt.
Uscendo da Londra, doggerfisher esponeva le foto “annichilite” di Nathan Coley, mentre Dallas si faceva notare per i lavori su tela nera di Craig Mulholland. Dall’Irlanda, infine, menzione per Kerlin a causa della pittura tono su tono, lieve e montana di Paul Winstanley e per l’inchiostro ornitologico di Jaki Irvine.
Les Italiens
Presenza nutrita in quel di Frieze e non solo. Perché a Pulse c’erano Changing Role, Perugi e Tiboni, e a Year AR, Pantaleone e NT. Al main event nomi onoti. A partire da Noero, che sfoggiava due ampie installazioni di Mike Nelson e un Vanity Fair firmato Vezzoli. Da Sonia Rosso, innanzitutto il disegno e la scultura di Avery e i lavori di Scott Myles, a seguire una Guareschi che prosegue imperterrita a proporre delicatessen fragilissime. Da Torino a Milano, stand non entusiasmante di francesca kaufmann, con un buon Caravaggio -Gianni, s’intende, che raddoppia da Andriesse-, un paio di fotografie di Adrian Paci (lo slide-show Per Speculum lo si vedeva da Kilchmann, che aveva pure il miglior scatto di Willie Doherty) e la palma del primo video (pochi in generale) incontrato in fiera, a firma di Aïda Ruilova. Approccio minimal per Guenzani, con un curioso Tuttofuoco, un paio di tele di Pessoli e lo scatto inappuntabile di Sugimoto. Fa riflettere Giò Marconi per la dizione della galleria: esponendo anche pezzi notevoli di Pistoletto e Rotella non era il caso di aggiungere Fondazione Giorgio Marconi? Zero… conferma l’attitudine altezzosa che la contraddistingue, e si notavano le foto di Schabus e un defilato Gennari. Massimo Minini ha letteralmente accatastato dipinti e disegni di Solakov (in versione installativa e total red da Arndt), tre acrilici di Beecroft e una serie su legno di Chiasera. Unica presenza dal Sud, Raucci/Santamaria non godeva certo di una buona posizione nella topografia della fiera. Ma riusciva comunque a rendere appetibile il proprio stand, specie con le installazioni di Torbjörn Vejvi e di James Yamada, oltre che con lo scatto di Collishaw.
Assalto ai forni
Effetto fiera del motociclo o dell’erotismo. La calca si forma in alcuni stand. Cosa cela la ressa? Un guizzo di pseudo-democrazia. Ossia, poster in migliaia di copia, da prendere aggratis. Da Noero ci si accaparrava Henrick Håkansson, da Webster (galleria che non compare sullo Yearbook) e pure da Art:ConceptJeremy Deller, da Freedman -comprensibilmente gongolante per aver venduto alla Tate lo slide show di Tudela (sua anche la solarizzazione da Gelink)- Warhol buoni per ogni occasione e parete.
Cosa ne resta dell’Europa
Partendo dalle lande più rigide climaticamente, lo svedese Karlsson proponeva una delle rarissime animazioni viste in fiera, firmata Lars Arrhenius (l’altra da menzionare è di Ezra Johnson da Klagsbrun, che mostrava pure un parassitario Adam McEwen, ironizzante sulle installazioni a pavimento di Carl Andre, facendovi spuntare una papera). Welters presentava una lievissima installazione di Claire Harvey, con scatoline ricolme di sabbia nelle quali erano inseriti minuscoli ritratti stampati su vetro. Wallner sfoggiava una museale installazione del duo Elmgreen & Dragset, in una versione assai meno eclatante del solito, con decine di piccole fotografie in bianco e nero.
In area germanofona, Konrad Fischer si difendeva non tanto con Penone e Andre, quanto con quattro classici scatti dei Becher, mentre Buchholz si assicurava sulle sedie a rotelle di Isa Genzken e Capitain con la doppia proiezione di diapositive su libro di Kippenberger (artista “ritratto” in una serie di Elfie Semotan da Senn). Da Guenther, il video di Alexander Heim confermava i risultati di Liste 07, mentre da Produzenten da segnalare la grande tela di Jonas Burgert e da Schöttle il lavoro su legno di Thomas Helbig. Piglio femminista invece da Nagel, con l’accoppiata Martha Rosler–Cosima von Bonin. La berlinese Neu si fregiava della vendita alla Tate di uno Slominski, ma attirava soprattutto con la camera fissa di Hilary Lloyd. Nourbakhsch merita una menzione soltanto per amor di patria, esponendo Airò. König puntava sugli alterni gusti dei visitatori: da un lato l’algido specchio rotante di Jeppe Hein, dall’altro le fette di salame sottovetro di Tue Greenfort. Giocava sul duo pure Contemporary Fine Arts, con tre lavori a testa di Meese e Tal R, mentre lo sguardo cadeva inevitabilmente sui giganti di Martin Honert passando da Johnen. Dalla Svizzera, Presenhuber proponeva il polished copper di Shearer, ma soprattutto improponibili cartellini in formato Cognome-Nome. Deludente il colosso Hauser & Wirth, specie per l’acrilico su tela di Creed, ma riusciva in ogni modo a dare una zampata con l’equino di Berlinde De Bruyckere. Meglio Krinzinger, con la disturbante tela di Erik van Lieshout e l’ironia di Erwin Wurm. E si difendeva pure Kargl, dall’olio di Schinwald alle tassidermie di Dion; nonché Janda, con la serie di sei scatti di Signer. Ropac aveva forse i migliori Jason Martin, ma pure Baselitz da dimenticare. E Mayer Kainer metteva a confronto Gelitin e Franz West: indovinate chi aveva la meglio.
In area francofona, Crousel affiancava le “chiavi” di Claire Fontaine a una sala video nella quale si alternavano Allora & Calzadilla (in mostra al new space di Lisson), Hassan Khan, Melik Ohanian e Anri Sala. A parte l’ennesimo Monk, Lambert catturava gli sguardi con la scala a chiocciola rotante di Loris Gréaud, per proseguire col “cestino” di Kaz Oshiro -a tal punto realistico che qualcuno ne faceva uso-, il teschio “stellato” di Douglas Gordon e uno Gigolo di Vezzoli. Insieme a due colleghi, Perrotin esibiva i Surrealist Frame di Peter Coffin e pareva affascinato dalle pelli conciate, che fossero suine tatuate (Delvoye) o griffate Hermès (Tatiana Trouvé). Meno mortifero Air de Paris, con le bandiere di Claire Fontaine, l’ippopotamo rosa di Carsten Höller e la pannocchia pop-corn di François Curlet. La belga Bastide va menzionata per le due c-print Second Life di Olga Chernysheva: niente a che vedere con i mondi virtuali, è la “seconda vita” degli animali trasformati in pellicce.
Poco o niente dall’Iberia: soltanto la madrilena de Alvear, che sfoggiava una pittura di arroja fuegos targata Santiago Sierra.
Disegna il tuo stand
Il secondo intermezzo se lo aggiudicano quei galleristi che hanno puntato sul design dello stand. A partire dalla chiassosa Gavin Brown’s enterprise -doppiata in sedicesimo da Hotel-, che ha trasformato il proprio spazio in un mercatino. Passando per la dominante latex di CRG, al black di Rech, al tappeto verde di Pepe Cobo, al pavimento manga di Lehmann Maupin e al geometrismo di Team, sino ad arrivare a Standard, che sfruttava le caratteristiche dello specchio di Einarsson per ampliare otticamente i metri quadrati a disposizione. Obiettivo minimalista centrato per Grässlin (dove segnaliamo Imi Knoebel), assai meno per lo stand d’antan di Cabinet. C’è chi poi ha deciso d’intervenire direttamente sui “muri”, da Juda a Zero…. Se gli ultimi saranno i primi, certamente in testa troveremo Sutton Lane, che senz’alcuna vergogna vendeva le postcard in un espositore da tabaccaio. E infin De Carlo: fatta eccezione per una fotografia di Paola Pivi, ha scelto di affiggere i (pochi) lavori portati a Londra in uno stand arioso e coloratissimo, grazie all’intervento parietale di Armleder.
Il resto del globo
Alcune presenze periferiche parevano dettate dalla ricerca di un profilo global piuttosto che dallo standard qualitativo applicato per la selezione delle gallerie provenienti dalle aree “calde” dell’artworld. Così, la pur titolata moscovita XL era deludente, fatta eccezione per il video The Lake del BlueSoup Group. La slovena Podnar proponeva bei lavori di Putrih, ma soprattutto la poltrona superaccessoriata di Fiskin. Poco da trasmettere sul fronte greco (Breedor), ancor meno su quello marocchino (L’appartement 22). Sfeir-Semler, galleria di Amburgo con sede a Beirut, faceva attardare parecchi curiosi sul Turner rivisitato in pieno onirismo da Hiroyuki Masuyama. Ma colpiva soprattutto il soggetto “proiettili”, qui a firma di Walid Raad e, a pochi metri di distanza, nei disegni a penna su carta di Karl Haendel dall’israeliana Sommer (dove segnaliamo pure lo scatto di Adi Nes e la calzolariana installazione di Guy Zagursky).
Dalla Cina, Vitamin intrigava con l’installazione da vedersi al buio di Chu YUn: una danza di puntini luminosi, nient’altro che led facenti capo alla tecnologia che utilizziamo ogni giorno. La sino-coreana PKM puntava sui celeberrimi dipinti di Feng Zhengjie, anche se meno tediosi erano gli acquerelli di Liu Wei. Dall’America che non è Stati Uniti, la brasiliana Casa Triângulo ha goduto dell’acquisizione da parte della Tate di uno scatto in bianconero di Restiffe, presentando altresì un video “operaista” di Kaoru Katayama. Buona prova anche di Fortes Vilaça, con le installazioni di Neuenschwander, Soares e Neto. La messicana kurimanzutto era invece sottotono, per cui si segnala soltanto l’installazione di Abraham Cruzvillegas.
E ora s’approssima Artissima. Si ritarino le aspettative e si contribuisca alla crescita della fiera più interessante del Paese.
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marco enrico giacomelli
fiera visitata il 12-13 ottobre 2007
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