Categorie: fiere e mercato

fiere_resoconti | Miart 08 Art Now!

di - 17 Aprile 2008
Milano è ancora il cuore del mercato dell’arte contemporanea italiana, ma storicamente vive un insanabile conflitto tra pubblico e privato. Ognuno va per la sua strada. Così accade che in una città importante, ma che non è New York, vivano da separati in casa il fronte di via Ventura e dei galleristi che, sodalizzando con i big stranieri e attingendo alla fucina breriana di Garutti, hanno fatto il mercato in Italia negli ultimi vent’anni, i nuovi che si candidano come alternativa guardando soprattutto all’estero, lo sgarbismo e il daverismo delle istituzioni pubbliche, l’Italian Factory di Riva, il protezionismo italico del gruppo Rcs, “Arte” e “Flash Art”, il Premio Cairo e via Farini.
Tutti a tirare una coperta troppo corta, i cui frutti sono il disorientamento dei collezionisti potenziali, i musei che non nascono, le fiere che affossano, appunto. Il pluralismo è bello, ma se si riduce a bega di quartiere diventa provincialismo. Così finisce che il nemico più forte di Miart non siano le fiere estere e neppure Artissima o Artefiera; ma una larga parte degli operatori milanesi che hanno deciso che della kermesse meneghina si può fare anche a meno. Si dirà che dopotutto Londra è riuscita a fare a meno di Frieze fino al 2003. Già, ma lì ci sono scuole all’avanguardia (Goldsmiths, St. Martin e Royal College), un sistema museale formidabile, ci sono grandi gallerie e collezionisti. Ma, soprattutto, ci sono le case d’asta a fare il mercato dell’arte globale.
Quel mercato che all’arte italiana concede circa un paio di wild card ogni decennio, spesso fuori tempo massimo: Fontana e Manzoni, l’Arte Povera, la Transavanguardia, Cattelan e Beecroft. E se l’euro non farà un passo indietro, le prossime si faranno attendere un pezzo.

ANTEPRIMA
Nel complesso debole, la sezione tradisce le attese. Anche se qualche spunto positivo non manca. Un esempio sono le nuove foto di girasoli secchi di Glen Rubsamen della madrilena Benveniste, una selva carbonizzata dove l’elemento naturale si confonde con quello artificiale. Nel caso della romana Interno Ventidue gli va male perché pesca, di Paul Ferman, che è artista di un certo spessore e curriculum, il progetto meno convincente della sua più che ventennale carriera (Necessary illusions, 2007).
Sul fronte milanese si confermano Federico Bianchi, Riccardo Crespi e Federico Luger tra le punte delle gallerie emergenti. Il terzo, membro della Commissione della fiera, si spalma in questa edizione con due stand, inaugurazione nella nuova sede a due passi dalla fiera, video selezionato nella sezione di Arévalo di quell’Hernández cui si deve la suggestiva discesa all’inferno dantesco descritta sui barili di petrolio schiacciati in via Dante, special project della vigilia della fiera.
Secco e rigoroso l’allestimento della trentina Deanesi, con una scelta dai progetti fotografici di Louis Molina Pantin, una continua indagine concettuale sul paesaggio e l’architettura di interni dai risvolti economici e politici. Articolata la collettiva di pittura anglosassone della torinese Glance, che anticipa la mostra di Jocelyn Hobbie, i cui ritratti tradiscono una sensualità dannunziana e balthusiana. A proposito di tributi al passato, si ispira a Watteau il paesaggismo di Bénédicte Peyrat della tedesca Thomas Rehbein. C’è anche il ritorno di una vecchia conoscenza, Antonio De Pascale, con uno stand monografico per la parigina Salvador.
Sosta d’obbligo da Fabio Paris per vedere gli ultimi sviluppi dell’arte elettronica: da una fiera l’evento in preparazione al Center for Digital Cultures and Technology di Bruxelles, in concomitanza con la fiera locale, si propone di infrangere le barriere dello scetticismo del collezionismo reazionario e dimostrare come l’arte dei nuovi media è ormai collezionata in tutto il pianeta da privati e musei. Allo stand di Milano una nutrita rappresentanza dei protagonisti dell’evento di Bruxelles conferma che la galleria bresciana, ora con la complicità continua di Domenico Quaranta, detiene il primato italiano in questo settore di ricerca.
Ultima annotazione per un’accoppiata al femminile di Artopia: Giada Giulia Pucci e Martina della Valle.


I PROGETTI

Nuevos Territorios Americanos
Caratteristica di questa edizione di Miart è senza dubbio la grande indagine sull’arte latino-americana condotta da Omar-Pascual Castillo con il progetto Nuevos Territorios Americanos.
Pan American Art Projects allestisce una personale all’argentino Léon Ferrari, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2007, con opere dal 1990 al 2005. Esposti sono i classici written painting, lavori calligrafici intensi e ansiosi, sul genere di quelli in collezione al MoMA.
Anche quella della milanese Prometeo è una personale, stavolta del colombiano Rosemberg Sandoval, che è geniale quando riproduce le bandiere del mondo su un fregio fatto di immondizia o trascina i mendicanti in galleria, ma diventa agghiacciante ritraendosi con feti morti o brandelli di cadaveri. È il limite maggiore di molti artisti sudamericani, quando la violenza e la morte diventano gratuita maniera (non occorre citare l’esempio dalla cronaca recente del costaricense Vargas).
In questa finestra aperta su un territorio culturale ricco di spunti e ancora da indagare approfonditamente si segnala anche Iturralde Gallery, che lascia spazio al video di Oscar Muñoz, La linea del destino (2006): inquadratura fissa sul palmo della mano concavo e l’acqua che vi è contenuta che scivola via, consumando progressivamente il volto riflesso del riguardante.

Bourgeois Plaisir
È la piazzetta di Milovan Farronato, che non si è sprecato più di tanto selezionando cinque gallerie emergenti che, per parte loro, nulla hanno fatto per mostrare un po’ di progettualità a medio termine. Non pervenuti gli annunciati ospiti stranieri. A spiccare nell’occasione è forse il lavorìo della bresciana Citric, che dimostra un certo dinamismo e occhio nella scelta degli artisti, anche se manca ancora una solida regia. Bene anche la pistoiese Spazio A.

Atlante americano
È un valore aggiunto della fiera il progetto di Antonio Arévalo, una black room dove sono proiettati 14 video dai Paesi sudamericani. La selezione è ottima, la qualità degli artisti pure (Apóstol, Bruguera, Castro, Galindo, Navarro ecc.). Dissacrante critica all’UE, in particolare, il lavoro Doing it ti death di Jota Castro (2004), su musiche di James Brown. È vero che il progetto è reduce dal Foro Mondiale delle Culture di Monterrey, è vero che in fiera le rassegne video non funzionano se non on demand, però Arévalo, curatore molto attivo che vive in Italia da anni ed è stato anche commissario del Cile alla Biennale di Venezia, si conferma un referente attento del panorama latinoamericano che andrebbe interpellato più spesso.

CONTEMPORANEO

Anche qui il giro scorre senza emozioni. 1000eventi e Guy Bärtschi si uniscono per presentare la ricerca concettuale dello statunitense Douglas Huebler, mancato nel 1997.
Curti/Gambuzzi salta sul carro degli indiani con Sheba Chhachhi e Nataraj Sharma.
A proposito di indiani, le novità di Marella sono invece i ritratti fatti di timbri di Reena Kallat. Per la galleria milanese anche la scoperta, a scoppio ritardato di un decennio per la verità, della Mission School di Frisco: l’allestimento pop-geometrico sulla parete esterna è di Clare Rojas.
Fuori posto la Galleria Grossetti, meglio le sue scelte nel classico che nel contemporaneo. Per questo si ricorda soprattutto la ruota spezzata di Spagnulo, artista particolarmente presente in questa fiera.
Raffaelli espone Terry Winters, Colombo alterna il popolare magico di Presicce al crepuscolare fantastico di Stefania Romano, Project B anticipa la personale di maggio del Turner Price Keith Tyson. I suoi Nature painting, tecniche miste su alluminio, dimostrano straordinaria raffinatezza retrospettiva sui temi della pittura di paesaggio.
Tra le punte di eccellenza sta il lavoro Untitled di James Brown (compagno d’avventura di Basquiat e Haring), del 1997, presentato da Lipanjepuntin. Ca’ di Fra sfrutta il traino della doppia mostra al Pac con Witkin e Saudek, Elleni punta sulla pittura analitica italiana degli anni ’70 di Griffa, Olivieri e Aricò. Curiose le opere di Justine Kurland da Scognamiglio: di sapore folk, sembrano la traduzione fotografica dei quadri di Peter Doig. Rino Costa lascia tutta la scena a un Salvo anemico, In Arco si gioca un Martin Maloney monumentale, Rubin rispolvera il polacco Leon Tarasewicz (una Biennale in curriculum per lui).
Rientra nei canoni museali la presenza di Cardi, con Bertozzi & Casoni, Calzolari, un Hirst milionario, Salle e Penone. E se la bolzanina Antonella Cattani sfoggia interessanti lavori di Tirelli, sul fronte veneziano ci sono segni di rinascita, grazie all’intraprendenza di Michela Rizzo, qui con le croci lignee di Richard Nonas e il Lawrence Carroll portato al Correr, e al rigore di Jacopo Jarach; da segnalare per quest’ultimo l’antipasto della personale di Giorgio Barrera, recente vincitore del Premio Baume & Mercier.
Sfruttiamo la penuria di segnalazioni di rilievo citando l’ostinato lavoro di un’altra galleria veneta, lo Studio Valmore, una missione in difesa dell’arte cinetica, programmata e optical. Il genere non sarà più tanto di moda e tuttavia è un capitolo della storia dell’arte del Novecento che continua ad avere un largo seguito, anche nella trendissima Art Basel.

MODERNO

Arriva alla fine la vera boccata di ossigeno. Il settore dell’arte storica è il vero gioiellino della kermesse milanese. Compatta e di gran qualità, si carica sulle spalle tutta la fiera e la porta fuori dalle secche del controverso panorama contemporaneo.
Si parte subito con il botto da Bonaparte con un piccolo Balla del 1912: si intitola Linee di velocità + vortice e viene direttamente da casa Balla. Tornabuoni risponde con un importante Merz del 1977-78, una tecnica mista su carta intelaiata di 2 metri per 1,5, un delizioso De Dominicis del 1996 (Urvasi e Gilgamesh), le Impressioni di paesaggio del 1908 secondo Boccioni, persino un Matisse del 1918 (Le Mont Chauve).
Nella selezione del disegno italiano allestita da La Scaletta spiccano i Perilli e un Afro pre-astrattista. Da segnalare qui anche un lavoro del 1965 di Calzolari, Prolegomeni per una definizione dell’atteggiamento.
Mazzoleni bissa l’appuntamento dedicando un intero stand a Vasarely, Tega chiude buone vendite con Castellani e Parmeggiani.
Fra gli stranieri è sontuosa la presenza della spagnola Manel Mayoral: si va dal notturno blu di Picasso del 1898 (Horta de Sant Joan) ai Miró di ottima fattura fino all’ampia offerta di Antonio Saura. Transitando da Anfiteatro, dove è esposto un buon Dorazio di fine anni ’50, si arriva davanti a un enorme sole giallo di Schifano (1979-80). I lavori degli anni ’60 dell’artista li propone poco distante Tonelli.
Dal pop all’astrazione geometrica, Cardelli e Fontana mettono in mostra una bella selezione di Nativi (1948), Soldati (’51) e Reggiani (’53). Sul fronte futurista invece si colloca Artecentro, di cui segnaliamo una cavernosa opera di Gerardo Dottori.
Ultimo ma non ultimo il grande Birolli del 1953, Canale nero, allo Studio Campaiola, passato per la Biennale dello stesso anno.
C’è anche la bresciana Agnellini (un anno di vita), che persegue il piano delle grandi retrospettive. Per il 2008 ne sono in programma due: la prima di Tobey a cura di Daverio, la seconda di Villeglé della direttrice Dominique Stella. Intanto qui ci sono venti opere di Andy Warhol. Nessun capolavoro, intendiamoci, ma è comunque un bel richiamo per il pubblico dei curiosi.

CONCLUSIONE

La 12esima Miart va in archivio con una buona notizia: a girare per gli stand si sono rivisti spicciolate di collezionisti che contano, anche stranieri, anche italiani che si dichiarano traditi da Artissima. Da qui bisogna partire: non è in discussione il ruolo di capitale italiana del mercato dell’arte di Milano. Vale però la pena di prendere atto del clima non positivo che circonda la kermesse, sia sul fronte istituzionale che sul fronte degli operatori storici del contemporaneo. Il cambio di marcia s’impone, a costo di un decisionismo impopolare (Bellini a Torino insegna).
Il settore moderno funziona? Bene, sia valorizzato in sé, con un evento dedicato. Perché non pensare dunque a due appuntamenti distinti, uno per l’arte Otto-Novecento storico e uno che copra il segmento dal Post-War a oggi? Il tempo delle grandi fiere generaliste è finito, di queste sopravvivono solo kermesse storicizzate (Madrid, Basilea, Bologna…). Nel fitto panorama internazionale emergono oggi invece modelli compatti, iper-selezionati, specialistici, con un target ben individuato: il collezionista di Balla non è lo stesso che acquista Ofili o Tillmans ma neppure cinesi e indiani. E neppure Paolini o Judd.
E se i galleristi consolidati non sostengono il progetto, si profondano energie alla ricerca degli operatori emergenti. Soprattutto si punti a valorizzare i nuovi punti di forza del mercato, si studino con attenzione gli stakeholder, si cerchi insomma di educare il collezionista del futuro. Una proposta? Fare ciò che nessuno vuol fare, aprire finalmente un confronto in campo aperto con le case d’asta che, nel mercato globale, stanno riuscendo a fare ciò che storicamente non gli è mai riuscito: metter mano sul mercato primario.

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alfredo sigolo

[exibart]

Visualizza commenti

  • Arevalo per me è il più abile esperto del panorama latino americano e non capisco perché le istituzioni italiane pubbliche e private non si avvalgano della sua collaborazione dato che in un sistema globale le competenze di un'area del pianeta è destinata a far parte della rete che caratterizza l'arte contemporanea. Una caratteristica che poggia sulla complessità dei linguaggi che non sono più mere scelte formali o stilistiche, ma scaturiti da punti di vista prima mai considerati capaci di renderli freschi ed efficaci. Arevalo ha saputo raccoglierli in una rassegna, nel suo "bunker" nero che farà il giro del mondo.
    Svegliatevi curatori italiani, lasciate la presunzione di onnipotenza in favore di un più proficuo rapporto di collaborazione.
    Marcello Carriero

  • "il collezionista di Balla non è lo stesso che acquista Ofili o Tillmans ma neppure cinesi e indiani. E neppure Paolini o Judd."
    Ho un'idea per Milano: potrebbero fare 8 fiere...

  • Andrea il tuo commento suona come se tu fossi un po' invidiosetto del bravo Milovan, che anche se giovanissimo fa moltissime cose (di buona qualità).

  • Ritengo che una parte considerevole delle responsabilità siano da addurre a tanti che, come Farronato, non ci credono e non si sprecano più di tanto (basta vedere la personale 'oscena' di Liliana Moro a Milano).
    Tanti che, come il suddetto organizzatore, sono overload di impegni ed attuano una politica all'insegna della bulimia presenzialista non distinguendo un programma culturale serio, e di cui Milano avrebbe disperato bisogno, da una messa in piega con le amiche

  • Comunque, sinceramente parlando quest'anno la fiera è stata quasi un flop. Poca gente (la metà era al vernissage... ma poi?) e soprattutto pochi collezionisti (perchè si continua a dire che ce n'erano un bel pò?) tranne per il vernissage, anche a causa della concomitanza con la biennale di Berlino (che inaugurava il 4!). L'incrocio è stato sfortunato ma oramai le date erano fissate. Forse bisognerebbe diminuire invece che aumentare il numero degli espositori e soprattutto trovare il modo di attirare più pubblico interessato e internazionale, oltre ai visitatori della domenica. Questi fanno sempre bene e magari creano un buon giro d'affari per locali, ristoranti e altro, ma non per le gallerie. Ciao!

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