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fiere_resoconti Roma. The road to contemporary art
fiere e mercato
La strada per l’arte contemporanea passa per Roma. Va in scena la nuova fiera capitolina di Roberto Casiraghi, già inventore di Artissima. Dopo l’altalena di annunci e smentite, proclami e retromarce, la tanto attesa kermesse ha avuto il suo battesimo. E allora spazio al consuntivo...
Ma ci vogliono idee. Tutti hanno già dimenticato la timidissima Cornice Venice Art Fair, organizzata fuori città, al Tronchetto, durante la Biennale veneziana. Casiraghi ha scelto un’altra strada, portando le gallerie nel cuore del centro storico, all’interno dei palazzi romani. Ha insomma messo l’arte su un podio irripetibile. E di fronte alla Colonna Antoniniana di Piazza Colonna (appunto!) o ai volumi di Santo Spirito non c’è Regent’s Park, Messe Basel, Pier 94 o Regiment Armory che tengano.
Tutto il resto, le polemiche dell’interminabile vigilia, i risultati in termini di pubblico e vendite non proprio esaltanti, gli allestimenti frettolosi, la selezione altalenante, le location di serie A e B, la scelta dei collaboratori, sono un’altra storia.
Roma è stata comunque una bella sfida per gallerie, artisti e opere. E un’opportunità straordinaria, per il pubblico, di godere del confronto fra antichità e contemporaneità che, quando si accende, perviene a risultati affascinanti. Due flash: i Silver mirror eyes di Jonathan Monk alla mostra di Achille Bonito Oliva Cose mai viste alle Terme di Diocleziano: una sequenza di piccole foto in bianco e nero con gli spilli a infilzare gli occhi dei personaggi ritratti. E il Domestic Glass Meets Wild Glass di Jimmie Durham, un intervento sonoro minimo, un precipitare continuo di vetri fra le rovine dell’Impero.
Pari e patta alle Terme fanno gli Stracci italiani di Pistoletto, il Globe di Mona Hatoum, Charles Avery, la Leda e il Cigno di Matt Collishaw. Da brividi invece le scelte di De Paris, Gligorov, Piacentino, Rosenquist e persino Schnabel. Qui la mostra –che rimane bene allestita- scade decisamente. Inspiegabili l’affollamento isterico di spazi già pieni, la selezione di opere spesso inadatte, l’allestimento che regala storture come il piccolo Paladino quasi dimenticato su un davanzale o il minimalismo del Pavilion di Dan Graham defilato in un angolo, diventando il ripostiglio degli operatori tv accorsi per l’intervista di rito.
Restando alle mostre, neppure l’Incipit di Ludovico Pratesi, opere scelte dalle collezioni dell’Associazione Giovani Collezionisti a Palazzo Rospigliosi, resterà nella memoria. Una collettiva di opere per lo più straviste, senza capo né coda, di qualità medio-bassa. Se questo è il collezionismo italiano giovane, siamo proprio alla canna del gas. Citiamo, per amor di cronaca, tra le cose azzeccate, il cielo al di là del filo spinato nella foto di Emily Jacir, l’interpretazione de La dolce vita di Vik Muniz, l’Interno 46 di Giuseppe Pietroniro, l’Aureola casa di Francesco Arena e il The Tree di Marina Abramović.
Qui finiscono le mostre e inizia la fiera. Il Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia è quasi nascosto da un allestimento eccessivamente appesantito e datato. Se non si alza lo sguardo, il contesto appare quasi ordinario. Ci pensa il cubo trasparente della lounge collocato nel chiostro a ricordare al visitatore che non è così.
Stanno qui le gallerie più giovani e aggressive e la selezione non è neppure male. Equilibrato lo stand di Pack con Di Fabio, Basilé e Masbedo, lussureggiante quello di 1/9 grazie alle novità di Artists Anonymous e James Hopkins. Vistamare lascia spazio ai ritratti d’artista di Abate, Cesare Manzo si fa apprezzare per l’alternanza di storici come Pistoletto (Progetto n. 92 delle Cento Mostre nel Mese di Ottobre 1976, 1995), giovani come Matteo Fato, lavori interessanti come i collage di Justin Lowe. Giò Marconi regala un Vezzoliin tema, con il ritratto piangente di Messalina, e si fronteggiano Nicola De Maria ed Emilio Prini da Pio Monti. Allestimenti istituzionali sono quelli di S.A.L.E.S., Sonia Rosso e Lorcan O’Neill.
La madrilena Pepe Cobo investe sul nuovo, come Mp & Mp Rosado, sui classici vanno invece Continua, con Kapoor, e Raffaella Cortese, con Kiki Smith e T.J. Wilcox. In particolare, quest’ultima centra la scelta dell’alta qualità nelle dimensioni contenute.
Tre le presenze curiose, l’australiana Tolarno che, oltre a Patricia Piccinini, si fa notare anche per l’eclettismo di Brook Andrew, le foto di Bill Henson (già in Biennale) e Rosemary Laing.
Al Tempio di Adriano l’atmosfera si fa più intima. Sette stand solamente per due segnalazioni significative: le ristampe fotografiche di Rodchenko di Photology (dalla mostra in galleria) e la video room allestita dalla bilocata Raffaella Cortese, per rivedere A Needle Woman (1999) della coreana Kimsooja.
A Palazzo Wedekind le gallerie possono alternare l’allestimento interno a quello sulla balconata. Anche qui, due segnalazioni: il sempreverde Schnabel di Robilant+Voena (qualche cartuccia da sparare c’è ancora) e la scelta indovinata di Tucci Russo nel puntare tutto su Penone: le sue opere paiono quasi mimetizzarsi sul pavimento, con grandi effetti di suggestione. E di vendite.
Infine, Palazzo Feerajoli come il salotto buono, dove si alternano i big Minini, Artiaco, De Carlo, Gian Ferrari con risultati piuttosto deludenti. L’unico tentativo di dominare lo spazio impegnativo lo fa Lia Rumma con Alfredo Jaar. Karsten Greeve dà addirittura forfait.
Tirando una riga, Casiraghi riesce ma solo sulla carta. Alla prova del nove il manager si piega al suo stesso progetto: servivano un occhio curatoriale e una strategia di negoziazione con gli operatori per mandare in scena l’ambiziosa scommessa del dialogo fra antichità e contemporaneità.
Si dirà “è solo una fiera” e ci si va per vendere. A parte il fatto che non sta scritto da nessuna parte che una fiera serva solo a vendere (nessuno si chiede quanto hanno venduto le aziende al Salone del Mobile di Milano o a quello dell’automobile di Francoforte). Ma, sia pure concesso, a nessuna azienda si perdonerebbe di scivolare proprio sul fronte, si passino i termini, del packaging e del brand management.
Invece, alla fine i nodi sono venuti al pettine, soprattutto l’insipienza dei galleristi che non hanno colto l’occasione di sfruttare la duttilità di certi artisti, suggerendo ai loro stessi clienti soluzioni allestitive intriganti. Gli inevitabili vincoli imposti dalla location non possono essere un alibi accettabile.
A questo proposito, vengono a mente le tanto criticate operazioni di autopromozione del supercollezionista Panza Di Biumo. Che hanno dimostrato almeno la possibilità di coniugare efficacemente arte minimalista e concettuale con le residenze storiche italiane (vedasi gli esempi della Gran Guardia di Verona, del Palazzo Ducale di Sassuolo e di quello di Gubbio). E con risultati assolutamente notevoli.
Eur: ARTEcontemporaneamodernaROMA
Un capitolo a parte lo teniamo per l’immancabile fiera collaterale, qui organizzata all’Eur. Solo in apparenza cambiano le prospettive. Perché se è pur vero che, a differenza della fiera di Casiraghi, il Palazzo dei Congressi è contesto utilizzato nel pieno delle sue funzioni, è altrettanto vero che sempre di palazzo storico si tratta, progettato nel pieno della voga razionalista. E che mantiene intatto il suo carico metafisico e decadente nelle lastre di marmi bianchi e neri disposte in maniera speculare, nella scalinata e nel colonnato, nella terrazza, nelle lunghe fughe decorate da Funi, Severini, Sironi.
ARTEcontemporaneamodernaROMA è stato voluta da Daniela Salvioni, già direttrice di SteinGaldstone Gallery di New York, curatrice per il P.S.1 e per il MoMA, che si è avvalsa anche di collaborazioni importanti (Yasmin Gebel per la comunicazione, Cornelia Lauf, Loise Neri di Gagosian Gallery, Giorgio Verzotti per la selezione). Insomma, una struttura certamente valida nelle premesse e partita con intenzioni serie, riuscendo ad attirare nomi di prestigio internazionale come Buchholz di Colonia, Georg Kargl di Vienna, Greengrassi di Londra. Sul fronte italiano sono state fatte opportune scelte tra gallerie emergenti e di ricerca, come N.O., Not, Nowhere, Allegra Ravizza, professionisti del contemporaneo come Le Case d’Arte, De March, Paris, e del Novecento come Tornabuoni, La Nuvola e L’Archimede.
Fin qui bene. E poi? Poi inizia un’altra fiera, quella del più disinformato provincialismo italiano, dei mercanti di bassa lega, dei corniciai dozzinali, dell’arte da bancherella di paese. Non c’è la prova ma, a occhio, qui siamo di fronte a una grande incompiuta. La sensazione è che si sia arrivati fino a un certo punto, per poi calare miseramente le braghe, tirando dentro cani e porci. Un vero peccato. Perché così facendo la fiera si è tirata la più drastica delle bocciature. E si è giocata, forse per sempre, la possibilità di far tornare quella dozzina di gallerie che dovevano essere lo zoccolo duro sul quale costruire la possibilità di dare continuità e autorevolezza al progetto.
Difficile scovare le cose degne di nota. Certamente lo è un pezzo della storia della street art italiana, il Joys presentato da Ravizza. Restando in tema, da Amphisbaena di Modena si vedono Bo e Microbo, in compagnia dei ConiglioViola. Lo stand più interessante per il contemporaneo è certamente Buchholz, con Isa Genzken, Cerith Wyn Evans e Tillmans. Ottima anche la proposta di Gavlak, con Marilyn Minter e ottimi lavori di Aleksandra Mir, spartita con Greengrassi, che per parte sua rilancia con la top player Lisa Yuskavage. Equilibrati e coerenti gli stand di Not Gallery e Fabio Paris, che presenta l’artista virtuale Gazira Babeli nei panni di Anna Magnani, gli interessanti tappeti simil-Boetti di Alterazioni Video e i lavori meccanici di Michele Bazzana. Da segnalare in giro anche una tipica mostra ultrapop di Gianluca Marziani (Hotel Poooop), che funziona meglio su web che dal vivo, e una sezione aperta di progetti che sembra d’essere a Porta Portese la domenica presto.
Postilla: giusto sfruttare l’occasione secca della fiera romana, ma la commistione tra arte contemporanea ed edifici storici, tanto in voga in Italia, è un’arma da usare con parsimonia. E deve costituire un’eccezione, mai una regola. Primo perché gli edifici storici sono un monumento da valorizzare in sé (la sola idea di applicare il tristemente famoso termine di riqualificazione a, che so, una villa di Palladio -già che ricorre il cinquecentenario- dovrebbe far rabbrividire); secondo perché l’arte contemporanea è fatta, per definizione, nella contemporaneità e per la contemporaneità: dialoga volentieri con il passato, ma innanzitutto vuole parlare al presente. E a diventare, in nome della moda, paravento di politiche facilone incapaci di valorizzare il patrimonio che gli è dato in gestione e di investire per creare nuovi luoghi per l’arte, proprio non ci sta.
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www.romacontemporary.it
www.artecontemporaneamodernaroma.it
www.hotelpoooop.com
alfredo sigolo
[exibart]
Certo se il “disegniuccio” della Smith è rappresentativo del servizio allora siamo alla frutta.
Il problema è che si vuol vedere solo ciò che si è deciso di vedere; tutto il resto non conta.
Alla fine è solo prima repubblica!!!!!!!!!!!
Diciamolo pure che la fiuera all’eur era francamente imbarazzante!
Caro Sigolo, solo una nota:
la galleria napoletana si chiama NOT GALLERY e non NOT come è stato riportato nell’articolo.
Solo per la precisione rispetto ad una galleria che fa un lavoro interessante e serio.
Sono d’accordo. Sarebbe bello poi che chi scrive questi articoli su situazioni complesse come quelle delle fiere si sforzasse di fare un’analisi più completa senza fermarsi solo agli stand degli amici e parenti. Pare sempre che se sgarrano di un rigo chissà che succede…. Il livello medio di ArtecontemporaneaModerna era molto basso, ma forse valeva la pena descrivere in modo più ampio ciò che si salvava e che non si limitava alle poche cose citate.
troppa poca selezione tra le gallerie romane troppi artisti romani.
no comment per le due e piu fiere romane,quello che veramente non funziona è roma e l’italia . le gallerie sembrano costrette a fare fiere piu per il quieto vivere che per ragioni di mercato e culturali.
alcune di loro facendone quattro o cinque di fiere l’anno , sembra riciclino lavori e svuotano magazzini.. a scapito della qualità.
i rari lavori di qualità guarda caso sono subito venduti… che sia milano o palermo
non importa dove.
la crisi è questa non avere piu idee.
troppi improvvisatori tra curatori e organizzatori dovrebbero restare a casa.
Marzia , se un giornalista cita solo il nome di una galleria e non ne commenta le opere è perchè magari in quell’ occasione il lavoro presentato gli è piaciuto meno di quello proposto da altre gallerie senza nessun tipo di cattiveria o di allusione.
Ma come mai tanta premura, Marzia ?
Se ti presenti alle fiere col nome di Not s.r.l. è lecito che in una recensione ti chiamino solo Not .
Caro Alfredo Sigolo,
è sicuramente più facile trovare motivazioni critiche che cercare di scrivere qualcosa di costruttivo su opere che si è visto frettolosamente e magari non si è ben capito… d’altra parte dovevi scrivere un articolo di tot battute e lo hai fatto. Il tuo compito lo hai eseguito, la direzione di Exibart e appagata e tu prenderai il gettone. Bravo. Sai cosa non mi piace di gente come te? E’ che quando vedono un lavoro, prima vanno a vedere il nome dell’autore e della galleria che lo rappresenta e poi decidono se gli piace. L’arte invece andrebbe valutata diversamente… no? Poi chissa perchè Casiraghi va quasi bene mentre la Salvioni è senza appello? Forse perchè ha investito meno in pubblicità nella vostra struttura?
Casiraghi ha inaugurato la deleteria prassi di organizzare fiere pagate con denaro pubblico, cosa ci sia di innovativo e positivo in tutto ciò mi riesce difficile capirlo
Caro Elio,
ho solo specificato che il nome della galleria è Not GAllery; così è nota al pubblico, così si presenta in pubblico, così riporta il sito, gli inviti, il biglietto da visita e la targhetta sullo stand in fiera, indipendentemente dal fatto che il nome sociale possa essere NoT srl (questo non lo so e francamente credo che interessi a pochi).
Non ho fatto alcun commento sulle scelte del giornalista di commentare o meno la sua attività espositiva o le opere presentate. NOn sono entrata nel merito dell’articolo,rispetto il lavoro del giornalista e chi scrive e non mi permetto di certo di sindacare sulle scelte di impostazione dell’articolo. Mi son limitata ad esprimere apprezzamento per il lavoro della NOT gallery. Lo merita a parer mio.
Impariamo a rispettare i commenti altrui senza criticarli a prescindere da quelloc he realmente riportano.
Grazie
Gentile Alferdo Sigolo,
sono un gallerista che ha partecipato ad ArtecontemporaneamodernaRoma. Nella Sua recensione la mia galleria non compare tra le gallerie che ha menzionato come “positive” quindi ritengo che devo dedurre che ricadiamo nella categoria dei dozzinali corniciai, cani e porci, come le altre non citate tra le ”buone”, per fortuna in felice compagnia della Galleria Mazzoleni (che ha portato in fiera una decina di milioni di euro di storia dell’arte: Burri, Fontana, Poliakoff…), di Kim Light-LightBox di Los Angeles, Simyo Gallery di Seul, Wernicke di Berlino, Contemporary Arts Society, Pier Giuseppe Carini, First Gallery, Nina Lumer ecc…
Per quanto riguarda l’organizzazione, le dott.sse Daniela Salvioni e Yasmin Gebel e il loro staff hanno fatto un ottimo lavoro e in Italia dovremmo imparare ad essere grati a chi investe e rischia di proprio (e non usa soldi pubblici come altri!), invece di sputargli addosso. Roma era l’unica capitale importante senza una manifestazione fieristica internazionale d’arte. Credo che la manifestazione organizzata all’Eur abbia tutte le carte in regola per diventare un evento di primo piano. Spero che Daniela Salvioni e Yasmin Gebel abbiano ancora voglia di continuare nei prossimi anni.
Roberto Bogatec
per il signor gallerista:
Capisco il voler difendere la manifestazione che vi ha visti coinvolti, ma cerchiamo di non esagerare, si rischia di diventare poco credibili.
Da spettatore e addetto ai lavori debbo dire che la manifestazione non era affatto buona e l’organizzazione tremenda. Più che una fiera sembrava un ospedale, di una tristezza infinita. Una buona organizzazione si vede anche dalla promozione e diffusione stampa fatta (zero)e dalla affluenza di pubblico(nel week end era penosa, non oso immaginare negli altri giorni)
diciamo che uno dei drammi di questo paese è la difesa incondizionata del proprio orticello.
Giusto per chiarire.
Quando fu scelto il nome della galleria, a fine 2004, fu scelta la parola “NOT”, non come acronimo, non come diminutivo di qualcosa, ma come avverbio di negazione (ovviamente in inglese).
Ci piaceva l’idea di negare anche nel nome tutta la ricerca fatta in precedenza, per cominciare a gettare le basi di una fruizione più ampia (non élitaria) dell’arte contemporanea.
L’avverbio ci permetteva di negare qualunque cosa fosse prodotta dalla nostra “factory”, affinchè non fosse categorizzata in qualcosa di già noto.
NOTart, NOTartists, NOTresearch, NOTartworks, ecc. ecc.
Per questa ragione la società che gestiva (e gestisce) NOTgallery fu chiamata soltanto “NOT”.
Vi confesso che il fatto di mostrare la srl di cui faccio parte come una NOTsrl mi fa molto piacere (la non-galleria è gestita da una non-società)!!!
Chiamarci NOTgallery o soltanto NOT per noi è lo stesso in quanto non cambia il senso della nostra ricerca (che è fatta al momento attuale di didattica NOTlearning e di progettazione di opere d’arte maggiormente fruibili dal pubblico NOTproducts).
Questo non per difendere il bravo Sigolo, che comunque stimo e apprezzo, ma – lo ripeto – solo per chiarire le ragioni del nostro apparire a volte come NOT, come NOTgallery o come NOT srl.
Marco Izzolino (direttore creativo NOTgallery)