L’ultima scommessa di Pierre Huber, collezionista e curatore globetrotter appassionato di scenari esotici, è
“educare i cinesi all’arte contemporanea”. Non solo occidentale, anche a quella che si fa a casa loro e che però la maggior parte dei cinesi non conosce, perché circola nelle grandi fiere internazionali, dov’è comprata da acquirenti occidentali. Per questo, insieme a Lorenzo Rudolf, già direttore di ArtBasel, e con il supporto di Bolognafiere -che ha avuto la malaugurata idea di coinvolgere l’Ice, autore di una vetrina italiana un po’ penosa- ha organizzato a Shanghai la prima fiera dell’arte contemporanea. 121 gallerie internazionali, tra cui anche quelle cinesi che fanno ricerca, accanto alle omologhe indiane, brasiliane, pakistane, americane (tra le meno brillanti), francesi, tedesche, inglesi… Sgombriamo il campo da equivoci: il livello della fiera che si è svolta tra i 6 e il 9 settembre nel pomposo e labirintico Exhibition Center di Shanghai è stato molto alto, centrando l’obiettivo di Huber e Rudolf di fare una fiera “curata”, convinti che
“per il futuro della scena artistica orientale conterà molto lo sviluppo del mercato orientale”.
Buona la scelta delle gallerie, dovuta al lavoro di scandaglio di diciotto “ambasciatori” incaricati da Huber di setacciare l’Oriente (area molto vasta, che va dalla Turchia al Giappone) per trovare nuovi talenti. E buoni i lavori presentati. Giusta la sezione
The best of artist, curata da Huber, che presentando
Chen Zhen,
Gu Dexin,
Rirkrit Tiravanija,
Ai Weiwei,
Tatsuo Myajima e altri, ha fatto conoscere ai cinesi il meglio dell’arte che si fa nel loro Paese e dintorni. Meno riuscita, forse, l’altra sezione, ugualmente curata da Huber,
The best of discovery, che mirava a mettere in mostra gli artisti emergenti di quella larga fetta di mondo, l’Oriente geograficamente dilatato, che il collezionismo internazionale aspetta come manna dal cielo, un po’ per sincera passione e molto per fare buoni affari. Invece, fra i venti giovani spuntavano, se non proprio vecchie conoscenze, artisti ormai affermati sul mercato mondiale, come il cinese
Jiang Zhi, e con prezzi poco interessanti, come la giovane indiana
Shilpa Gupta (entrambi già visti alla Fondazione Sandretto), presentata dalla galleria
Sakshi di Mumbay, autrice di un video che ha incantato numerosi visitatori e che era in vendita per 35mila dollari.
Al di là della qualità dei lavori, la fiera è stata interessante perché ha messo a fuoco uno scenario, forse non nuovissimo anch’esso, ma ancora non sufficientemente indagato. Cominciamo dal mercato, che continua a mostrare grande vivacità e che, da queste parti, può contare su una nuova borghesia, giovane, curiosa, attenta e parecchio ricca. Anche in Cina, insomma, i trenta-quarantenni scelgono l’arte contemporanea come status symbol e non solo gli abiti griffati. E questo fa gola a tutti perché, come per qualunque altro prodotto, chi sfonda qui si aggiudica un guadagno piuttosto eccezionale. Inoltre, si tratta di un mercato che non sembra temere la spietata concorrenza dei tanti abili copisti che abbondano in Cina, Paese con la più alta concentrazione al mondo di accademie d’arte e quindi popolato da artigiani che vantano una manualità particolarmente virtuosa. I quali non copiano spudoratamente l’artista di successo ma, appena si afferma un nuovo nome, sono pronti a immettere nel mercato una quantità di opere “alla maniera di”, spiega
Zhou Tiehai, artista di successo, molto imitato e consulente della fiera per la Cina.
“Il vero argine a questo fenomeno è lavorare con artisti viventi, frequentando i loro studi e acquistando direttamente le opere da loro”, dice Maurizio Rigillo, uno dei tre golden boy della galleria
Continua, che tre anni fa ha aperto una sede a Pechino, città dove opera anche
Marella di Milano. E, a detta dei collezionisti europei arrivati a Shanghai, la capitale offre molto di più della “Parigi d’Oriente”: più radicato è il fenomeno della produzione contemporanea, con svariati art district e 400 gallerie che fanno mediamente un buon lavoro (negli anni ’90 ce n’era solo una, racconta Huber), mentre a Shanghai nei due distretti d’arte contemporanea, il periferico M50 a Moganshan Lu e quello centrale alle spalle del Bund, si mischiano buone gallerie, come
Biz Art e
Shangart, insieme a spazi che smerciano autentiche croste.
Se Huber avrà ragione, queste frattaglie di pittura, che non sono neanche figlie della tradizione “incolore” cinese e che per ora solleticano qualche acquirente occidentale male informato e un po’ di cinesi avidi di contemporaneità -categoria che, sostiene la curatrice Zhang Wei (sua la scoperta di
Cao Fei),
“è orami un brand che si vende sul mercato, senza che nessuno conosca i singoli artisti”– avranno vita breve. L’ “educazione” a cui Huber pensa è infatti molto occidentalizzata, dove gli eccessi figurativi e pittorici di oggi saranno edulcorati in video la cui mano cinese sarà di difficile identificazione. È il caso di
Ham Jim, molto celebrato da Huber perché, a detta sua,
“inimmaginabile fino a cinque anni fa” , cioè senza quelle fastidiose scorie folk-orientali. Perché il fatto è che se nel nostro mondo globale l’etnico tira bene in cucina, nella moda, nei gioielli e addirittura in letteratura, non va bene invece nell’arte. Che più d’ogni altro linguaggio mira a vestire un codice unico, riconoscibile e vendibile, a ovest come a est.
Quindi, la grande scommessa del mercato orientale oggi è: quanta produzione è possibile sfornare, gradita ai collezionisti occidentali, perché nuova, “esotica” a suo modo, ma al tempo stesso non estranea alle correnti, come Concettualismo, Arte Povera, installazioni di scala architettonica, che piacciono da noi? E i cinesi, abili più di tutti, si adeguano in fretta, pronti a compiacere l’acquirente di turno. Anche se, come sostiene Pearl Lam, collezionista, gallerista con spazi a Hong Kong, Shanghai e Londra, e per sua stessa ammissione “shopper addicted”,
“tutto questo non c’entra niente con la nostra arte”. Chissà se andrà più liscia con gli indiani e con i russi che, dopo il boom cinese, sono oggi i mercati più interessanti secondo Huber e Rudolf. Con prezzi ancora buoni e scarsa sovraesposizione.