Categorie: fiere e mercato

fiere_resoconti | The Armory Show 2008

di - 14 Aprile 2008
Affacciato sull’Hudson River, un solo Pier, il 94esimo, celebra la decima edizione della fiera newyorkese per eccellenza, riscuotendo l’approvazione generale per la riorganizzazione della location. 160 le gallerie provenienti da 39 città e da 21 Paesi nel mondo. Le newyorkesi si mantengono forti, con un’incidenza del 31% (l’11% delle altre è americana, di cui un grossa parte proviene da Los Angeles), ma a crescere è il numero delle europee, che si qualificano con un 53% rispetto al 50% dell’anno passato (su 150 gallerie). Un 2% è poi riservato al Nordest asiatico, mentre il restante 2% si divide tra Israele, India e Sudafrica.
Il numero di visitatori è pressoché equivalente a quello del 2007: circa 52mila le presenze registrate (tra le quali anche la colorita coppia tedesca di living artist, Eva e Adele), così come il giro di affari di 85 milioni di dollari conferma le previsioni sulle vendite (la stima è però elaborata su un campione circoscritto al 10%).
La visual identity della fiera è stata commissionata agli artisti Mary Heilmann, pioniera dell’abstract painting postmoderno, e John Waters, film maker e fotografo (Study art. For profit or Hobby una delle opere in mostra), chiamati a creare una limited edition a favore della Pat Hearn and Colin De Land Cancer Foundation; particolarmente sentita la loro partecipazione per la speciale relazione che entrambi hanno intrattenuto con gli scomparsi galleristi, membri fondatori dell’Armory Show.
Lo spazio dove si dipana “l’attuale scenario dell’arte contemporanea” forma una grande T rovesciata che si interseca in un’area circolare, una sorta di piazza, che svolge l’antico ruolo di scambio, riposo e ristoro. Più complesso è invece il compito sostanziale che si propone lo show a causa della sovrapproduzione di eventi dedicati, ma tralasciando le consuete e ipocrite denigrazioni non costruttive, non si può dire che la qualità manchi del tutto. Certamente questa fiera, come molte altre, riflette la natura business oriented dell’attuale mercato, dove meccanismi di marketing come il “non esserci” fanno sospettare di un modo più economico e incisivo per essere notati (si pensi ai grandi assenti come Gagosian, Marian Goodman e Barbara Gladstone).
A segnare un punto nei confronti della qualità sono però quei booth che decidono di scommettere tutto sul lavoro di un solo artista o che gli affidano l’allestimento dello stand, preservandolo dalla sua natura ibrida e impersonale. Se anche questo sia stato l’ennesimo espediente per attirare l’attenzione -espediente che negli ultimi tempi è particolarmente in voga-, l’esito è in molti casi interessante: questi stand si distinguono lungo il percorso con opere e installazioni più museali e meno affastellate, rendendo maggior giustizia al lavoro degli artisti. Per citare alcuni esempi: la porta di Martin Creed che si apre da sola, continuamente, creando simpatici equivoci tra il pubblico, da Hauser & Wirth (Zurigo), accompagnata da una pianista in carne e ossa; l’ironica e concettuale county fair di Annette Lemieux per Paul Kasmin di New York, Come Join In, che coniuga le immagini della depressione degli anni ’30 di Walker Evans con una rustica tavola a quadrettoni bianchi e rossi, su cui si erge Daisy, una mucca in miniatura, il premio “Best in the Show”; i provocanti led di Jenny Holzer che continuano a imporre di fermarsi per seguirli e comprenderli, da Cheim & Read; la disorientante installazione di Daphne Fitzpatrick da Bellwether, Rampt It Up, una rampa fatta di antico legno d’abete su cui poggia un’enorme scarpa, All The Days in The Life, di papier mâché, rame e stringhe di lino, che si completa con il video del giovane Chihcheng Peng, una rielaborazione di un film del 1924 di Buster Keaton su Sherlock Holmes; a chiudere il set, la c-type print Untitled VII dell’inglese Anne Hardy, che riempie il suo studio con scarti e object trouvé che tradiscono in ogni particolare la presenza umana e la mano dell’artista. Come non notare poi il gigantesco wall painting dell’eclettico collettivo Assume Vivid Astro Focus che corre su diversi metri a delimitare la vip lounge? Un mix di street art e di cultura pop che torna a sbeffeggiare l’idea del genio artistico individuale, coinvolgendo nella sua realizzazione amici e frequentatori dell’anonimo leader del gruppo, per Deitch Projects. Se questa può essere accusata di egocentrismo, cosa dire di fronte al pesante colosso Tool Table di Hirschhorn?

Di tutt’altra natura la teatralità che s’incontra nella retrospettiva su Eleanor Antin che allestisce Robert Feldam Fine Arts: un video, Loves of a Ballerina (metà degli anni ‘80), da sbirciare dalla fessura di un teatrino vero e proprio; un sofisticato autoritratto-installazione del 1986, dove l’artista incarna le vesti della ballerina Eleanora Antinova, seducendo ancora una volta attraverso le sue fantastiche autobiografie.
Infine, a fare del proprio booth (Nicole Klagsbrun) un’autentica opera d’arte è la giovane americana Beth Campbell (di recente al Whitney con l’installazione Following Room), che con Both Ways s’impadronisce dello spazio espositivo, creando uno spigolo netto tra i due ambienti che si confrontano speculari come in un gioco di specchi fittizio; il suo lavoro indaga le relazioni che intercorrono tra gli oggetti e lo spazio fisico, servendosi del doppio per comprendere l’uno.
Fra le italiane, l’unica a seguire questo indirizzo è Magazzino d’Arte Moderna, che presenta l’opera site specific The leading paintings #4 del portoghese Pedro Cabrita Reis. L’installazione colpisce per l’accostamento dei materiali utilizzati, una struttura in metallo e neon minimale che crea un felice contrasto con la parete di un arancione vivissimo; i frammenti architettonici si combinano poeticamente con i colori; il pavimento industriale sottrae l’opera alla moquette dei vicini stand, lasciandole il dovuto respiro.
A rappresentare l’Italia sono anche altre gallerie: Massimo De Carlo espone da Boetti a Yang Pei-Ming, fino a un monumentale Armleder. L’opera che più cattura lo sguardo, facendolo sprofondare in un abisso nero grazie a un’illusione ottica, è quella del polacco Piotr Uklanski. La galleria Continua concentra l’attenzione sul lavoro del camerunense Pascale Marthine Tayou, che anima i suoi spazi disponendo in cerchio una serie di totem in cristallo, tessuto e monili, che concretizzano l’immaginario africano. L’artista lo reinterpreta alla luce delle sue esperienze di vita nomade, creando un ponte ideale tra le diverse culture. Infine, Raucci/Santamaria, alla sua prima presenza all’Armory, presenta in particolare James Yamada e Tim Rollins.
Per quanto globalizzata, l’arte contemporanea si distingue oggi -nei medium utilizzati e nelle tematiche- per il legame con il suo Paese d’origine, specie quando si tratta di realtà in rapida trasformazione (Cina e India su tutte), che cercano di continuare a far vivere la propria tradizione e cultura, sentite ancora come estremamente forti, sotto la nuova prospettiva dell’attualità. È il caso della coppia di trentenni Thukrai e Tagra (Nature Morte, New Delhi), che rielaborano in maniera originale l’immaginario culturale indiano inserendo nel disegno, insieme alle loro buffe caricature, la sagoma di oggetti tecnologici con uno stile accattivante che si avvicina al graphic design. O quello di Meshac Gaba, per quanto più pretestuoso, che espone sculture-copricapo intessute in cotone nei tipici colori sgargianti del suo continente (Michael Stevenson, Cape Town).

Fra le gallerie new entry, che costituiscono il 9%, si segnalano la belga Erna Hècey, dov’è esposto un lavoro molto avanguardistico sulla Question de femmes (1964) dell’artista Jef Geys, che sarà presente alla prossima Biennale di Venezia; e l’olandese Juliette Jongma, che porta sulla scena i lavori del giovane film-maker Guido Van Der Werve.
Infine, un’ultima occhiata per cogliere alcune chicche. Oltre alle affermate gallerie londinesi White Cube, Lisson e Victoria Mirò, da Bortolami di New York si riscontra un raffinato accostamento fra la parete a strisce bianche e beige di Daniel Buren e la pittura persuasiva del polacco Piotr Janas; limpide e impeccabili le immagini della nuova serie di Christopher Williams da David Zwirner, così come le fotografie del californiano James Welling realizzate direttamente operando con fiori e piante sul negativo; da Sikkema Jenkins & Co., il venezuelano Arturo Herrera affascina per le sue scomposizioni fotografiche, che attingono dal mondo dell’animazione in bianco e nero, per ricomporsi in un caleidoscopico numero di immagini possibili; intensi anche i pugni-impronte impressi da Claude Lévêque su lamine di piombo dalla parigina Kamel Mennour.

Nell’angolo della galleria più fashion-kitch di New York, da Jeffrey Deitch naturalmente, il Dirty Fucking Rats (2005) della celebre coppia Tim Noble & Sue Webster stupisce ancora per la sua apparente immediatezza e per un’ironia che scava in profondità nella nostra società. Le domande che lascia aperte sono molteplici, così come le letture di quelle ombre. Non è forse proprio questa ricerca ossessiva di un’identità possibile ciò che muoverebbe il caotico mondo dell’arte contemporanea?

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eugenia bertelè

[exibart]

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