Domenica 10 maggio, ore 17.30. Come ormai di consueto, Edek Bartz, direttore artistico della
ViennaFair, ha accettato di intrattenere con “Exibart” una breve conversazione a giochi praticamente fatti: alle 18 in punto la fiera chiuderà i battenti. Non gli chiederemo certo della sua delusione, da lui già ampiamente esternata nella conferenza stampa di mercoledì, giorno della preview, per il ritiro di ben tre gallerie italiane, le uniche ad averlo fatto, proprio alla vigilia del debutto.
Un mercoledì che, per suo conto, era iniziato con umorismo circa l’
italian way of life, quando un mattiniero programma di cabaret radiofonico trasmetteva battute su “papi” del tipo: “
Hai avuto persino il coraggio di assumere una diciottenne come autista!”. “
Per forza, Veronica, altrimenti non poteva guidare la macchina”.
Domanda d’obbligo: un’impressione a caldo. “
In tempi così difficili”, risponde, “
penso di poter dire di essere soddisfatto. Il pubblico è venuto, si sono visti i collezionisti e oggi c’è stato anche un buon finale di partita. Sono soddisfatto”. Obiettiamo che, forse, molti galleristi non condividerebbero questa sua soddisfazione, ma la replica è immediata: “
Beh, questo è normale, accade ovunque che, chi non ha concluso affari, dica che è stata una brutta fiera. Ma posso assicurare che, nonostante tutto, sono invece molti i galleristi a dichiararsi soddisfatti”.
Se queste parole, lì per lì, ci avevano lasciato un po’ perplessi, i comunicati ufficiali dei giorni successivi, basati su dati oggettivi (15.719 visitatori) e sul resoconto dichiarato delle vendite (ad esempio: un
Markus Lüpertz a 75mila euro dalla
Kratochwill di Vienna, quattro
Xenia Hausner a 26mila ciascuna dalla
422 Margund Lössl di Gmunden, uno
Jakob Gasteiger a 22mila dalla
Schmidt di Reith im Alpbachtal… Con buona performance di vendite a costi bassi) ci fanno cambiare parzialmente opinione.
Però si nota subito che, rispetto alla passata edizione, mancano le grosse cifre pagate per opere importanti. Ma, in effetti, quest’anno artisti e opere di un certo calibro non facevano parte delle strategie dei galleristi. Con qualche rara eccezione per i grossi nomi, ma le cui opere erano – ci scappa di dire – opachi specchietti per allodole.
La conversazione con Bartz non langue davvero. Basta solo accennare allo strascico di felici prospettive che la Viennafair della scorsa edizione si portava dietro e del fatto che invece quest’anno alcune grosse gallerie non abbiano inserito Vienna nel loro
tour, vedi la Thaddaeus Ropac o le israeliane Dvir e Sommer.
“
Sì, un anno fa c’era molto ottimismo. Ma poi una mattina dell’ottobre scorso ci siamo alzati e il mondo non era più lo stesso”.
Ottima risposta per dire della catastrofe mondiale dei mercati. “
Ora tutti fanno programmi più misurati, selezionano i luoghi dove voler apparire. Ma intanto c’è stato un buon ricambio. E se guardiamo bene, osserviamo che anche alcune gallerie dell’Est non sono venute, ma per il semplice fatto che ora sono invitate a fiere di alto livello come Basel. Vuol dire che per le giovani gallerie, soprattutto provenienti dall’Est Europa, Vienna Fair può funzionare ottimamente come vetrina e trampolino di lancio per manifestazioni commerciali molto blasonate”. Ineccepibile. A questo punto la “breve” conversazione dilaga in esempi e osservazioni, ma le considerazioni essenziali non mutano più.
Dunque, ecco il punto. Se l’impronta della fiera viennese è marcatamente contemporanea, la presenza di una trentina di gallerie dall’Est Europa chiarisce che la sua vera specificità sta nell’essere il luogo di contatto, transito e scambio tra geo-economie in un mercato ancora, e forse per molto, nettamente sbilanciate a Ovest. Differenze, tradizioni e preconcetti non si cancellano con un colpo di spugna. Quanto ai numeri definitivi, su un totale di 122 gallerie, le presenze austriache erano 47, esattamente il 38,5%; 27 le tedesche, poi le altre dal resto dell’Europa più una statunitense.
Quanto alla cinquina italiana, le veterane
Traghetto (Venezia-Roma) e
Goethe 2 (Bolzano) apparivano più disinvolte delle loro connazionali nel gestire questa problematica trasferta. Riguardo alla prima, nella selezione tutta al femminile spiccavano le figure a olio di
Serena Nono e i ritratti perforati di
Anne-Karin Furunes. Riguardo alla seconda, il suo unico pezzo in mostra, consistente in un monumentale quanto enigmatico parallelepipedo nero con la scritta “Cock Bloc” a caratteri cubitali al neon, dell’austriaco
Christoph Hinterhuber, era diventato il sicuro punto di orientamento del labirinto fieristico.
Per le altre italiane, alla
41 artecontemporanea (Torino) c’erano le liriche figurine di
Gosia Turzeniecka impresse su cartoncino con tecnica e creatività infantili, che però, nel contesto, apparivano un po’ labili come ricettività da parte del pubblico.
Carasi-The Flat (Milano), forse leggermente penalizzata dalla collocazione angolare del quadrilatero espositivo, esibiva i volti a effetto tridimensionale “dipinti” con pongo policromo da
Cristiano De Gaetano. Quella di
Biasutti & Biasutti (Torino) appariva una buona scelta con i quadri “materici” di
Daniel Spoerri e
Piero Gilardi.
Nel panorama generale, il ciclone
MAM-Mario Mauroner (Vienna) invadeva molti spazi, lasciando però a casa, cioè nella vetrina stradale della sua bella galleria, un pezzo annunciato di
Paolo Grassino, una cupa e violenta scultura intitolata
Lavoro rende morte. A largo spettro la presenza della rinomata
Krinzinger (Vienna), con artisti ormai consolidati come
Angela de la Cruz,
Clarina Bezzola,
Atelier van Lieshout ecc., ma anche vecchie conoscenze come i temerari
Günter Brus e
Chris Burden. Folta anche la schiera
Insam (Vienna), che esponeva tra gli altri
Peter Weibel e
Gerlinde Wurth.
Luccicante, e al tempo stesso mimetica, l’installazione di
Gustav Troger, una quasi-performance che campeggiava nello spazio della
Artelier Contemporary (Graz): era un vero motoscafo ricoperto interamente di frantumi di vetro e sospeso in aria, accanto a una “scultura” maschile viva e vegeta, anch’essa rivestita di frantumi di vetro. Deludente e poco in sintonia la prestazione espositiva della
Lelong (Zurigo-Parigi-New York): molti visitatori per nomi d’eccellenza, ma c’era solo un lavoro (modesto) di
Jannis Kounellis a salvare le apparenze.
L’antropocentrismo, tra identità e precarietà esistenziale, ha avuto molto spazio, se non quasi il sopravvento. Ben supportato dalla pittura (o altre specie imparentate di tecniche figurali), forse a preludere ancora una volta a un “ritorno”. Ciò accadeva, per esempio, nello stand della influentissima
Hilger (Vienna) con
Andreas Leikauf, della
Point Contemporary (Bucarest) con
Roman Tolici, della
Françoise Heitsch (Monaco) con
Klaus vom Bruch, della
Lang (Vienna) con
Gottfried Leitner e
Andrea Schnell, o anche, come già accennato, in alcune gallerie italiane.
E proprio riguardo alla pittura, “
deve trattarsi per forza di un ‘ritorno’?”. L’interrogativo se lo pone in un articolo della rivista “Domus” (maggio ’09) nientemeno che Daniel Birnbaum, l’accreditatissimo direttore dell’imminente Biennale veneziana. Perché non si tratta più – osserva lui sulla scorta di Gilles Deleuze – di vederla come una modalità espressiva rigidamente data, ma come “
zona di contaminazione in continua espansione verso l’esterno…”. Sarà mica una didascalia a uso dell’evento veneziano?