05 maggio 2011

Più spazio all’arte contemporanea

 
Il direttore di Roma-The Road to Contemporary Art punta ad espandersi. Questione di spazi, ma anche di tempo. Una "strada" del contemporaneo in grado di attrarre collezionisti esperti ed appassionati. Le settantasei gallerie invitate sono già ai blocchi di partenza. Al via da domani la quarta attesissima edizione della Fiera di Roma...





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In quattro anni, ha visto crescere in modo esponenziale il numero di partecipanti e visitatori, diventando l’appuntamento più atteso dell’anno da collezionisti e galleristi. Non solo romani. La fiera Roma The Road to Contemporary Art deve ancora aprire le sue porte, ma sono già in molti ad essere rimasti fuori. Dalle cinquantacinque gallerie che hanno partecipato nel 2009, si è passati a sessantasette nel 2010, per arrivare quest’anno a settanta, ma, attenzione, a dare un tetto sono state soltanto le dimensioni dello spazio. Altre settantasei gallerie, infatti, sono state rifiutate. E gli organizzatori tengono a sottolinearlo: il merito non c’entra nulla, in questi caso, a fare la differenza sono le misure. Di spazi – e spazio – per l’arte contemporanea, parliamo con il direttore della fiera capitolina, Roberto Casiraghi. 

Come si presenterà la The Road to Contemporary art in questa edizione? 

Non ci saranno grandi o sostanziali cambiamenti rispetto allo scorso anno. Saremo ancora una volta, concentrati nella sede del Macro a Testaccio. D’altronde, lo spazio unico era la nostra primissima ambizione. 

Ambizione particolare per una “strada” del contemporaneo, nata peraltro come esposizione diffusa sul territorio. La sede unica non va a snaturare il concept della fiera? 

Quando quest’esperienza è iniziata, dovevamo entrare nel mondo delle fiere in modo eclatante. Roma, però, ha bisogno di dare evidenza fisica ai suoi appuntamenti. Diffondere gli appuntamenti e gli eventi in tutta  la città, peraltro, comportava inevitabili problemi di allestimento e gestione, con i relativi oneri finanziari. La sede unica offre evidenti vantaggi, anche se… 

Anche se…?

Vorremmo allargarci, occupando anche gli altri padiglioni. Gli spazi che utilizziamo, ormai, sono diventati piccoli per accogliere tutte le realtà che vorrebbero essere coinvolte nella manifestazione. La domanda èaumentata sensibilmente. Quest’anno abbiamo dovuto escludere un numero di gallerie pari a quello di quante, invece, sono state accettate. Questo può essere lusinghiero per la fiera, ma comporta una ingente perdita di risorse. 

Il prodotto funziona, quindi, e molto bene. Sembra che la crisi non vi abbia minimamente toccati. 

La fiera è nata in coincidenza di una delle più gravi crisi finanziarie della contemporaneità, su cui, nel caso italiano, si sono andati ad aggiungere, aggravando la situazione, i pesanti tagli alla Cultura effettuati dal Governo. Sulla nostra realtà, i tagli hanno avuto poco peso se guardiamo alle ricadute in termini di finanziamenti e simili, ma gli effetti dal punto di vista psicologico sono stati forti, soprattutto, per i collezionisti. Affrontare una spesa per l’arte, in questo momento, è più difficile. È innegabile.

Posizionatasi tra gli eventi più importanti della scena romana, come si inserisce la manifestazione nel contesto delle grandi fiere internazionali? 

Il posizionamento romano è buono ma i competitor internazionali sono molto forti. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di strutture dalla storia trentennale, più che solide quindi, e anche le realtà più recenti sono partite in modo molto diverso. In Italia, il mondo accademico e quello culturale guardano alle fiere come fossero un elemento di rottura, per non dire il diavolo. All’estero, la questione è vista in modo molto diverso. 

Più aperto? 

E più attento. Un esempio per tutti. La Tate Modern manda i suoi curatori alla Frieze Art Fair già nei giorni di allestimento e riconosce addirittura un premio a uno degli artisti esposti in fiera, dedicandogli una mostra all’interno dei suoi spazi. Lo spirito di collaborazione tra istituzioni pubbliche e realtà private che si respira negli altri paesi, da noi è inimmaginabile. 

La vostra fiera, però, ha sede in un museo. Come bisognerebbe strutturare la collaborazione pubblico-privato in Italia? 

È vero siamo in un museo e questo è un segno importante. Ci sono però, ancora molte barriere da abbattere. Qualunque tipo di rapporto, professionale ma anche umano, non funziona se tutti vogliono avere tutto. Bisogna che i privati smettano di rivolgersi alle istituzioni per speculare, ma serve anche che il pubblico la smetta di condurre battaglie anacronistiche. Le fiere vengono viste come belzebù, quasi come se si pensasse che nei musei di arte contemporanea le opere si manifestassero per intervento divino. Il loro percorso, invece, è commerciale. Ma da noi, c’è una mentalità antiquata in materia. 

E la strada commerciale della The Road to Contemporary Art come procede? 

La partecipazione alla fiera romana non fa ancora medagliere, non serve cioè per partecipare poi ad altre fiere. Le gallerie, alcune fedelissime, che partecipano lo fanno per motivi commerciali. A Roma è più facile incontrare grandi collezionisti. Molti qui hanno comprato casa. Per le gallerie, quindi, questo appuntamento fisso nell’anno è molto importante. Diciamo che vendite in fiera incidono al novanta per cento su quelle di tutto l’anno delle gallerie. Alcune gallerie, anche molto importanti, se non ci fosse la fiera, probabilmente chiuderebbero. 

Quali sono le prossime mete che vi siete posti? 

Vorremmo cercare di creare più possibilità per andare avanti nell’anno, uscendo quindi dalla concentrazione dei tre giorni di fiera. Ciò significa creare progetti specifici. Nel 2008, ad esempio, abbiamo effettuato una mappatura di tutte le gallerie presenti in città, con schede complete di nomi e volti di chi vi lavorava, oltre a dettagli relativi alle scelte fatte e al posizionamento sul mercato. Malgrado sia stata presentata a fine 2008, oggi quella ricerca è obsoleta. Molte gallerie non ci sono più, altre nuove ne sono nate, alcune hanno modificato linea. Progetti di questo tipo, però, sono complessi e costosi. Pur non dimenticando la sua natura commerciale, la fiera ha anche un ruolo sociale. Vorremmo lavorare per allargare la base dell’informazione culturale, ma, ribadisco, servono finanziamenti.

Che non si trovano… 

Io vedo consistenti sprechi di risorse, non solo culturali ma in generale, e ingenti contributi per le cosiddette grandi mostre, che, però, si esauriscono nel tempo e non lasciano nulla sul territorio. E magari non si trovano pochi fondi per la fiera. Eppure i fattori sui quali riflettere ci sono. Quest’anno, creeremo una serie di appuntamenti ad hoc, tra dibattiti e performance, con direttori di musei, artisti e protagonisti delle diverse scene culturali chiamati a dibattere sulle tre realtà più interessanti del momento dal punto di vista artistico, Los Angeles, Parigi e, per questioni di ospitalità, Roma. Vogliamo cercare di capire cosa stia succedendo in queste città. E per Roma la risposta è chiara: c’è una forte richiesta di contemporaneo. 

Basta pensare ai grandi e “nuovi” musei… 

Prima della fiera non c’era nulla. Ora ci sono Macro e Maxxi, Fondazione Cerere e via dicendo. Sospetto che non si tratti solo di una coincidenza. La fiera porta con sé un’interessante rete di aggregazioni. Speriamo che si aggreghi pure il nuovo assessore alle Politiche Culturali. Confidiamo molto nel sostegno del Comune che, con la nuova giunta, ha sempre dimostrato una grande sensibilità verso la fiera. Regione Lazio e Provincia di Roma sono sempre state sorde e cieche, per questo siamo visceralmente legati al Comune.  

 

a cura di valeria arnaldi 

dal 6 all’8 maggio

Macro Testaccio

Inaugurazione: 5 maggio ore 19

Apertura: venerdì 6 e sabato 7 maggio dalle 15 alle 22, domenica 8 maggio dalle 12 alle 22

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 72. Te l’eri perso? Abbonati!

 

[exibart]

1 commento

  1. Con un biglietto a 15 euro non mi sembra che la fiera si possa definire paladina della diffusione di cultura a Roma

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