Jesse Eisenberg torna dietro la macchina da presa con A Real Pain, lungometraggio incentrato sul tema della memoria storica e di come questa viene rielaborata attraverso una prospettiva personale e autobiografica. Protagonisti della storia sono i cugini statunitensi Benji (Kieran Culkin) e David Kaplan (Jesse Eisenberg): i due decidono di intraprendere un viaggio in Polonia per scoprire le origini della propria famiglia. Gli antenati dei due personaggi principali, di religione ebraica, sono dovuti fuggire dal Paese durante la Seconda guerra mondiale e la scoperta di questi luoghi lontani fornisce un pretesto per avviare una riflessione sulla consapevolezza storica che, in un modo o nell’altro, ogni cittadino del mondo dovrebbe avere nei confronti di certe situazioni
Già dal primo film che aveva diretto, When You Finish Saving The World, presentato alla 75ma edizione del Festival di Cannes, Eisenberg si era dimostrato particolarmente attento ad alcune fondamentali questioni sociali del nuovo millennio. Il debutto cinematografico verteva attorno al tema del cambiamento climatico e al modo in cui problema viene vissuto in maniera diversa da due generazioni, quella dei “figli” Gen Z e quella dei “padri” baby boomers. La tematica generazionale ritorna in A Real Pain – presentato nella sezione Alice nella Città della Festa del Cinema di Roma e nei cinema a partire dal 27 febbraio 2025 – declinata, però, in un ambito diverso: quello del privilegio di essere nati in un luogo e in un momento storico relativamente sicuri. Eisenberg indaga l’approccio che i discendenti degli emigrati ebrei negli Stati Uniti hanno nei confronti di un passato travagliato e lo fa adottando un genere classico e consolidato sia in letteratura che nel cinema, quello del viaggio.
In parallelo al percorso che scorre a tappe, avviene la crescita e la presa di consapevolezza da parte dei personaggi che lo hanno intrapreso e che compongono un variegato gruppo “turistico”. All’interno di un impianto narrativo classico vengono inseriti diversi punti di vista e atteggiamenti riguardo il modo in cui la cultura occidentale si ritrova a fare i conti con la memoria storica di una popolazione intera, anche in rapporto al vissuto personale.
Tutte le persone che compongono la compagnia che si muove per piccole cittadine della Polonia hanno un motivo diverso per trovarsi in quel luogo e in quel momento: da un giovane sopravvissuto al genocidio perpetrato in Rwanda, che ha trovato nella comunità ebraica conforto e una nuova casa da dove poter ricominciare la propria vita, a una coppia annoiata che decide di includere questo tour come tappa di un più ampio viaggio in Europa. La religione, in questo caso, intesa come un misto di tradizione e cultura, viene vissuta secondo due modi diametralmente opposti: per chi ci si è avvicinato in età adulta, anche in seguito a eventi destabilizzanti e traumatici, diventa conforto e consolazione, mentre chi è nato già inserito in un contesto del genere vive questo aspetto della vita in modo annoiato e per inerzia.
È, però, nei personaggi della guida turistica e di Benji, il cugino disordinato e disorganizzato – l’opposto del nervoso e ansioso David – che si esprime la vena più evidente di critica sociale che Eisenberg vuole mettere in evidenza. Nonostante un consolidato percorso di studi sulla cultura e tradizione ebraica, completato con un dottorato a Oxford, la guida turistica non appartiene e non fa parte di nessuna di queste tradizioni ma si pone comunque nella posizione di dare spiegazioni al resto dei personaggi, un po’ come quando, su base quotidiana, si sentono notizie provenire da opinionisti che poco o nulla sanno riguardo lo specifico argomento del dibattito in corso.
Benji, invece, rappresenta la parte più istintiva ma anche coscienziosa, come una sorta di Grillo Parlante delle favole, quando si affrontano argomenti che collegano un passato luttuoso a un presente, tutto sommato, fortunato. Esplode in uno scatto d’ira contro la guida, additandolo come pretenzioso e arrogante ma, al tempo stesso, non sa come assimilare le storie di sua nonna che è dovuta emigrare per sfuggire agli orrori dei campi di concentramento nazisti.
Come è possibile recuperare il ricordo e, al tempo stesso, liberarsi dal peso di qualcosa che non ci appartiene ma che abbiamo ereditato nel corso del tempo, tramite storie familiari sentite e risentite e che, alla fine, hanno iniziato a far parte di noi, del nostro vissuto e, infine, della nostra stessa identità? Numerosi artisti e, nello specifico, cineasti, si sono posti questo interrogativo. Per fare un esempio recente, solo tre anni fa Pedro Almodóvar con il suo Madres Paralelas poneva lo spettatore di fronte a un quesito non di poco conto, su come si possa agire per far sì che la memoria del regime dittatoriale che la Spagna ha subito per 40 anni non finisse sotto il tappeto.
È curioso come i due film, quello di Eisenberg e Almodóvar, nonostante trattino di due aree geografiche e periodi storici lontani, abbiano una conclusione simile. In Madres Paralelas la sequenza finale, composta dal primo piano sul volto della figlia piccola di una delle due protagoniste, lasciava un messaggio carico di speranza per il futuro e per le generazioni a venire, mentre in A Real Pain il nevrotico e ansioso personaggio di David fa ritorno a casa dalla propria famiglia.
David, che vive un dilaniante senso di colpa derivato da un costante confronto con ciò che la sua famiglia ha passato per far sì che lo stesso non capitasse a lui, viene accolto dalla figlia piccola, che da poco ha imparato a parlare. La bambina fa evidentemente parte di un’altra generazione, che probabilmente non sentirà nessun peso della storia sulle proprie spalle; il futuro non sarà trattenuto indietro dalle catene del passato, ma non per questo potrà essere cancellato.
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