Per il suo esordio alla regia di un lungometraggio, Andreas Fontana, ginevrino trasferitosi a Buenos Aires per farsi le ossa come assistente di produzione, sembra avvolgere alla propria esperienza le spire di un glaciale thriller geopolitico: Azor, di prossima uscita su Mubi, è aperto infatti dall’arrivo nella capitale argentina di Ywan De Wiel, banchiere privato svizzero alla ricerca del socio Renè Keys, improvvisamente desaparecido in piena dittatura militare di Jorge Videla. La realtà che attende De Wiel è quella di un’alta società in preda al caos per la morte del vecchio mondo da essa dominato e l’avvento di un nuovo ordine, in cui il domani sembra garantito solo a chi non abbia paura di sporcarsi le mani, mentre i rappresentanti delle ultime caste antiche sono poco più che deboli fantasmi alla ricerca di qualcuno a cui appigliarsi per non pensare al presente. Questa guerra per la definizione di un’epoca incrinerà la teca asettica dietro cui il protagonista studia i lasciti del collega scomparso. Anche De Wiel sarà infatti sempre più coinvolto, sempre più risucchiato dagli eventi, dagli attori e dalle opportunità, fino al raggiungimento di un simbolico e letterale cuore di tenebra del paese e della sua storia.
A colpire da subito è l’estrema eleganza che Fontana ha saputo infondere nella sua creazione. I personaggi, impeccabili nelle loro tenute fine anni ‘70, accarezzati da una fotografia che è al contempo naturale e pittorica e spesso incorniciati da tende, siepi e alberi, sembrano animare diorami ispirati alle tele di Hopper. Proprio come nell’opera del pittore statunitense, le atmosfere e le vicende sembrano sospese tra crudo realismo e onirismo inquietante, una combinazione che lascia nello spettatore uno strano formicolio, la sensazione che in ogni momento, in uno scenario tutto sommato familiare, manchi un pezzo o sia invece presente un qualcosa di troppo, di estraneo. Immedesimandoci in De Wiel, è come se avvertissimo che intorno a noi stiano agendo forze che non capiamo appieno, e che tuttavia non possiamo dichiarare apertamente di ignorare. Ci ritroviamo così a seguire il flusso degli eventi fino a dover prendere una decisione impronosticabile fino a pochi attimi prima, a dover improvvisamente decidere da che parte stare.
È interessante come Fontana sia riuscito ad inserire questo sentore di sogno e incubo in un congegno che spicca per l’iperrealismo di ogni altro suo aspetto: emblematica in tal senso la scelta di ripresa di un dialogo intrecciato tra quattro personaggi, in cui le due conversazioni parallele che stanno avendo luogo in un salotto vanno a sovrapporsi e fondersi, diventando quasi incomprensibili per lo spettatore che prova così esattamente ciò che proverebbe un quinto convitato. Il realismo del tratto è tale che, nonostante il protagonista attraversi una serie di scenari classici e abbia a che fare con personaggi quasi archetipici per il genere come la vedova in decadenza, il ricco volgare alle corse dei cavalli, il prelato devoto al potere più che alla croce, il temibile effetto Cluedo è scongiurato.
Ogni personaggio, e per traslato l’intera pellicola, ha infatti una forte tridimensionalità, un motivo solido per trovarsi dov’è e agire come fa, una storia sullo sfondo appena accennata e che lascia la voglia di saperne di più. L’impressione allo scorrere dei titoli di coda è che la forza di Azor sia in quel male che non ci viene spiegato, ma ci viene solo fatto scorrere lungo la schiena come un brivido.
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