«Senza vestiti non siete adeguatamente protetti».
«Mi stai dicendo che farà qualche differenza?»
«No».
A parlare sono il professor Valerij Legasov, responsabile dell’unità di crisi, e Glukhov, capo dei minatori di Tula, intenti a scavare nudi un tunnel sotto il Reattore 4 della centrale elettronucleare di Chernobyl, esploso nella notte del 26 aprile 1986. In questo scambio c’è tutto nocciolo emotivo di Chernobyl, bellissima e terribile mini-serie tv in 5 episodi della HBO, che ha lasciato sgomento il pubblico americano e russo. Lo scienziato, mosso da un tenue senso di umanità, è motivato dalla brutale necessità di portare a termine il lavoro a qualunque costo, mentre il baffuto minatore è erede di un’etica del lavoro altrettanto spietata ma è anche dotato di quella intelligenza da schiavo egizio, consapevole di star costruendo qualcosa di immortale, la sua ultima opera. La morte attende lui e metà dei suoi uomini.
Tutta il lavoro di Johan Renck, il regista della serie, è dedicato a uomini come lui e non senza artifici retorici. La fotografia di Jakob Ihre richiama costantemente all’elemento acqueo e gassoso, al verde, al vapore, al fumo. Un cromatismo che ritroviamo ovunque, sulle tute horror dei “liquidatori”, i 600mila uomini accorsi da tutta l’URSS per i lavori di messa in sicurezza di 30 km2 di territorio, che inondano di acqua strade e case della cittadina evacuata di Pripyat. E poi, sui camici bianchi degli operatori della sala comandi, sulle pareti della centrale, dell’ospedale cittadino, su ciò che rimane dei volti dei corpi straziati dalle radiazioni, perfino sulle mattonelle della stanza dove è condotto lo scienziato Legasov, dopo la dichiarazione-scandalo al processo. Come immersi in una foschia mentale, una fuliggine interiore che colonizza il nostro sguardo per tutte le 6 ore di pellicola.
Il racconto gode di quella lentezza tipicamente russa, senza dinamismi e colpi di scena. La qualità del girato sembra sgranata, rovinata. Come fosse il lavoro di giornalisti del tempo, armati di telecamere Betacam e immersi nei luoghi della tragedia. Considerando il metallico soundtrack della compositrice Hildur Guonadòttir ne esce un sapiente lavoro di maquillage visivo e sonoro, un agghiacciante documentario in VR.
I dialoghi in rigoroso inglese ci ricordano per fortuna che è tutta una komfortnaya fantastika.
Comodo pensare che anche il Sole sia scomparso dalla primavera ucraina, che gli interni delle case sovietiche siano sempre squallidi, che i casermoni del Proletariat siano sempre grigi, i palazzi zaristi bianchi, le auto della nomenklatura nere, che la tecnologia sovietica sia sempre rotta, superata, impolverata, che i soldati sembrino usciti da un quadro di Pavel Nikonov, che i liquidatori indossino scarne tute antiradiazioni solo per terrorizzarci (mentre nelle riprese originali sembrano giardinieri a lavoro). L’Urss grezza e fascinosa, naif, violenta ma anche paterna. Come Michail Gorbačëv che, con la sua espressione familiare e dubbiosa, invia 600mila uomini a liberare dai detriti di grafite radioattiva il tetto della centrale, «il luogo più pericoloso del pianeta». Dove perfino i moduli lunari si decompongono, ecco, lì arriva l’uomo nuovo sovietico – o quello che ne è rimasto, nel 1986.
La retorica del «costo delle menzogne» nell’arringa finale di Legasov nel processo (31 morti ufficiali, altre stime oscillano tra 4mila e 93mila decessi), la fede senile nel leninismo dell’anziano amministratore cittadino, che invita al silenzio per fare la propria parte nella Revolyutsiya, il tentativo del KGB di nascondere nel giardino di casa una catastrofe continentale, rilevata da istituti scandinavi e satelliti statunitensi. Tutto rientra nella barzelletta del minatore che racconta della tipica «macchina sovietica costruita per dividere una mela in 4 parti ma che la divide sempre in 3».
Ma, al di là dell’URSS, comodo feticcio da agitare dietro un paravento di ipocrisie e semplificazioni, quella che, invisibile, semina (ancora) terrore per le campagne di Chernobyl non è la Baba Yaga, la strega delle favole russe. Bensì, la superbia tecnologica, gli interessi economici e la bramosia politica. Un’idra che si è aggirata, nei decenni, per Three Mile Island, Fukushima, Windscale, Wolsong, Den Haag, Chooz, Garigliano, Grenoble, Lucens. Disastri e tanti incidenti non meno gravi, solo meno propagandati.
A metà tra la silente invasione in Afghanistan – che ha inghiottito 30mile vite – e quei primi barlumi di consapevolezza pubblica e mediatica, esplosi con il disastro del sottomarino Kursk, Chernobyl rappresenta, in ogni caso, un punto di svolta.
La serie ha il pregio di fotografare questo specifico intervallo. Nessuna lamentela, nessuna insubordinazione di medici, pompieri, infermieri, soldati, gente comune. Un riflesso pavloviano, che ha spinto i sovietici di ogni rango e posizione ad agire come “bio-robots” senza volontà, perché senza alternative.
Eppure avvolti da un dubbio silenzioso che ha scavato come una talpa, facendo sprofondare ogni certezza, sociale ed esistenziale. Qualcosa di simile alla nostra condizione attuale, consapevoli dei futuri disastri ecologici ma totalmente impreparati all’evenienza. E sarà dunque un bene seguire la loro antica saggezza: «Molis’ Bogu, no prodolzhay gresti k beregu!».
Domenico Sgambati