Categorie: Film e serie tv

Fine Arts Film Festival: tre film sulla coesistenza, al Cinema Beltrade a Milano

di - 10 Giugno 2021

Il Fine Arts Film Festival presenta, fino al 14 giugno, 100 film di 48 paesi in streaming online su Vimeo.  I milanesi potranno vedere i film A Machine to Live In, Back in The Island e I Lived Once al Cinema Beltrade martedì, 15 giugno alle ore 21.30, fino a esaurimento posti. Tutti e tre i film saranno proiettati in lingua originale con sottotitoli in italiano. Sarà presente il produttore di A Machine to Live In, Sebastian Alvarez.

«Per Milano abbiamo scelto tre film che parlano della dinamica relazione tra la dimensione umana, la natura e lo spazio urbano. La questione della coesistenza è particolarmente attuale dopo un lungo periodo di isolamento sociale e di migrazione forzata in uno spazio digitale», commenta Teresa Oschmann, promotrice della serata cinematografica del FAFF a Milano.

A Machine to Live In

Nel 1883, nell’antica abbazia piemontese di San Benigno Canavese, Don Giovanni Bosco descrisse nelle sue “Memorie biografiche” un sogno profetico in cui gli era apparsa una nuova capitale del Brasile. Il Paese geograficamente più esteso dell’America Latina era in procinto di liberarsi dalla corona portoghese e un paio di anni dopo avrebbe promulgato una repubblica governata dalla città costiera di Rio de Janeiro. Don Bosco, però, aveva immaginato la «città miracolosa» lontano dall’oceano e situata nell’entroterra, precisamente «tra il grado 15 e il 20 vi era un seno largo e lungo (un altopiano) da un punto ove si formava un lago».

Quasi 77 anni dopo, la visione del presbitero italiano – che non raggiunse mai il Brasile durante la sua vita – si era avverata. In effetti, l’odierna capitale brasiliana si trova, tra il 15º e il 20º parallelo, in un pianoro ad ovest del lago Paranoá. Eppure, Don Bosco difficilmente avrebbe potuto immaginare che il lago fosse artificiale e nemmeno che la città avesse la forma di un aereo o di un uccello in volo con ali curvate che si estendono per decine di chilometri al di là del lago.

Successivamente, gli urbanisti avversi al progetto – che prevedeva di costruire una nuova capitale nel più breve tempo possibile e senza alcuna relazione di continuità con il tessuto urbanistico preesistente – bocceranno la visione di Don Bosco di una «terra promessa fluente  latte e miele» come una mera velleità. Gillo Dorfles, che fu invitato all’inaugurazione di Brasilia il 21 aprile 1960, rimase sconvolto una volta constatato che «la nuova città appariva come un magnificente sogno assurdo e inabitabile» e Bruno Zevi definì Brasilia la «città di Kafka».

Si è scritto molto sull’architettura di Brasilia, in particolare sull’audace progetto urbanistico della città, caratterizzato da rampe sinuose, muri curvi e tetti voltati che vedono il cemento come materia protagonista. Tuttavia, i luoghi non vengono plasmati da un progetto architettonico, ma l’architettura stessa di una città è il risultato graduale del dialogo continuo tra il luogo, la cultura e la storia dei suoi abitanti.  Sono le multiple narrazioni annoverate dalla città di Brasilia – e non solo quella della sua leggendaria creazione in 1000 giorni realizzata dal celebre architetto Oscar Niemeyer – che il documentario futuristico A Machine to Live In esplora.

I registi Yoni Goldstein e Meredith Zielke si immergono con la macchina da presa nella capitale brasiliana per esplorare le peculiarità della città e dei suoi abitanti superando il materialismo geometrico elaborato da Niemeyer. Da un lato il film osserva la diffusione di problemi di vista delle persone, probabilmente una conseguenza della prolungata esposizione ai raggi UV nella cosiddetta “città senza ombra”.

Dall’altro emerge la leggenda che circonda il presunto omonimo di Brasilia: un asteroide scoperto da un astronomo francese nel 1890. Il lato mistico della città è evidente non appena il film si dirige verso l’entroterra della Planaltina: La cosiddetta “Vale do Amanhecer”, dove circa 40.000 seguaci di una comunità religioso-mistico cercano una connessione spirituale con entità ultraterrestri, o dove la più grande comunità di Esperanto del mondo, sogna di unire i numerosi gruppi di immigrati presenti nella popolazione brasiliana attraverso una lingua universale.

Il progetto futuristico di Niemeyer non è affatto meno idealistico di queste utopie parallele. «Brasilia non è nata, è stato proiettata» viene affermato più volte nel film, e una giovane donna cita la famosa scrittrice Clarice Lispector, che definì Brasilia un «paesaggio insonne», uno «scherzo» nella sua ricerca di perfezione impeccabile, perché «l’unica cosa che può salvarmi è l’errore».

Sembra che solo i fondatori della nuova capitale, Oscar Niemeyer e Lucio Costa, commissionati dall’allora presidente Juscelino Kubitschek, possano riposare in pace: Ormai le effigi di pietra vegliano sulla loro città dei sogni. Così come Don Bosco, al quale Brasilia ha dedicato una cappella come suo santo patrono. Lì si trova ora il sacerdote chiaroveggente, un santo di una chiesa provinciale con un sorriso mascherato. Guarda nel vuoto e non vede gli stravaganti edifici di forme fantascientifiche che Niemeyer ha piazzato nella pianura.

A Machine to Live In ha ricevuto recensioni entusiastiche in diversi film festival ed è stato presentato l’anno scorso a quello di Torino. Quest’anno, in occasione del Fine Arts Film Festival (FAFF), non solo sarà disponibile online sulla piattaforma Vimeo, ma potrà essere vissuto dai milanesi sul grande schermo del Cinema Beltrade.

Back in the Island e I Lived Once

Saranno proiettati, inoltre, due cortometraggi, tra cui una storia sul ritorno alle proprie radici raccontata da Amanda Valle, un’artista che vive tra la Repubblica Domenicana e Miami. In questo film torna al suo luogo di nascita dopo un periodo emotivamente difficile. Back in the Island è un ritratto affettuoso di rituali tradizionali, colori e odori familiari della sua patria che hanno ispirato l’artista a creare una nuova serie di opere.

Back in the Island

Gesti emozionali in risonanza con le particolarità di un territorio caratterizzano anche il secondo cortometraggio I Lived Once della fotografa e regista saudita Marwah AlMugait. In una performance di danza che rimembra stilemi di una cultura tribale, un gruppo di donne imita i meccanismi di autodifesa della natura rispetto all’azione super-imposta umana. Il film è stato presentato alla settima edizione del festival Jeddah Arts, un evento concentrato sul tema della crisi ambientale e sostenibilità minata dall’azione degli individui che vi interagiscono.

I Lived Once

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