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Gli occhi di Tammy Faye: una storia americana alla Festa del Cinema di Roma
Film e serie tv
La 16ma edizione della Festa del Cinema di Roma si è aperta, il 14 ottobre, con la proiezione di Gli occhi di Tammy Faye di Michael Showalter. Biopic di una coppia di “televangelisti” popolarissimi negli Stati Uniti degli anni Settanta e Ottanta, Jim e Tammy Faye Bakker, il film segue un arco narrativo prevedibile, ma non per questo meno efficace, di ascesa e caduta. Si racconta infatti tanto la costruzione dell’impero dei Bakker (dalla fondazione di un’emittente televisiva propria, il PTL Satellite Network – dove PTL sta per Praise the Lord! – alla creazione di un vero e proprio parco a tema cristiano, l’Heritage Village) quanto gli scandali sessuali ed economici da cui fu travolto Jim.
Certo la sceneggiatura, pur solida, avrebbe potuto offrire una disamina molto più cruda dell’opportunismo della coppia, dedita a sfruttare la faciloneria dei fedeli ascoltatori per accumulare profitti. O si sarebbero potute illuminare ancor di più le implicazioni politiche della superstizione religiosa dell’America profonda. Ma il film sceglie, consapevolmente, una strada diversa, che alla fine si rivela vincente: quella di mettersi al servizio delle straordinarie interpretazioni di Jessica Chastain e Andrew Garfield. Se lui costruisce un ritratto di viscida vigliaccheria a tutto tondo, lei è la vera forza portante del film e con la sua intensità riesce davvero a trasportare l’intera storia su un altro piano di significato.
Chastain rende credibile l’inverosimile, ovvero la sostanziale innocenza di Tammy Faye. La donna, infatti, rimane ignara dei magheggi del marito, chiudendo volentieri un occhio quando vede qualcosa che non va, pur di non cedere di un millimetro nella sua convinzione che il Bene sia dentro ogni anima e dietro ogni angolo. Un personaggio tanto ostinato e stucchevole sarebbe potuto facilmente risultare irritante. E invece, grazie all’abilità dell’attrice, lo spettatore rimane avvinto a questa figura e al coraggio che dimostra per affermarsi negli ambienti conservatori, e dunque sessisti, in cui si muove.
Tammy è di fatto l’unica persona, tra i tanti predicatori che popolano il film, che concepisce la religione come forza di tolleranza e comprensione dell’Altro, anziché come strumento discriminatorio e repressivo. Da questo punto di vista, lascia il segno la sequenza in cui, ormai regina dei talk show cristiani, intervista un uomo gay malato di AIDS, discutendo in modo del tutto franco la sua condizione e il suo vissuto, e mostrandogli tutto il suo affettuoso supporto. D’altronde, il film è frutto di un impegno personale da parte di Chastain, che ne ha portato avanti il progetto sin da quando ha visto un documentario sulla figura di Tammy Faye realizzato nel 2000, che ha il medesimo titolo del film attuale ed è narrato dalla voce di Ru Paul.
Eppure non basterebbe lo status di icona gay sui generis a qualificare e rendere profondo il personaggio. Il vero punto chiave, ed è qui che l’interpretazione di Chastain mostra tutta la propria intelligenza, è che la bontà di Tammy non ci viene raccontata semplicemente come un dono del cielo (!). Al contrario, essa è tutt’uno con il suo desiderio irresistibile di essere vista, di apparire, di performare. La performance è in effetti l’elemento chiave del personaggio, a cui il film riesce a guardare senza moralismi e senza costruire dicotomie banali. In Tammy, spettacolo e realtà, vita e finzione coincidono pienamente, l’una sfocia continuamente e naturalmente nell’altra.
Il film suggerisce, in modo sapiente e non didascalico, che il fervore assoluto con cui Tammy crede alla propria recita derivi da un vissuto infantile complesso e traumatico, ma anche da un’insoddisfazione erotica nella vita adulta. Per lei, sposata ad un marito fedifrago e palesemente interessato a persone del proprio stesso sesso, il godimento fisico rimane un anelito per lo più irrealizzato, e così diventa necessario cercare altre forme di trascendenza. La dimensione del canto diventa una sublimazione essenziale, a cui è dedicato un finale tanto delirante quanto autenticamente trascinante (si noti che Jessica Chastain utilizza la propria voce). Ma anche la creazione di una vera e propria maschera pubblica – Tammy si tatua indelebilmente il contorno nero delle labbra e il trucco pluricromatico intorno agli occhi – costituisce uno strumento per affermare sé stessa, farsi guardare e soprattutto comunicare. Grottesca senza mai essere caricaturale, Jessica Chastain ci trasporta nel regno dell’illusione in cui vive il suo personaggio, e ce ne mostra la dimensione insieme tragica ed eroica.