C’è qualcosa ne Gli spiriti dell’isola che non controlli. Probabilmente un side effect imprevisto anche dal regista. Può darsi che tutto dipenda dal proprio percorso personale, dalle esperienze di vita, chissà. Eppure la sensazione quando esci dal cinema è quella di aver visto, anzi, rivissuto pezzi di memoria, di immaginazione costruita (forse ad arte) e ricostruita in decenni, di tutto ciò che può essere l’Irlanda. Prati immensi, delimitati dalla forza del mare e dalle vertiginose cliffs tagliate dal vento che battono su una casetta, un ritrovo caldo e accogliente, dove bere un birra al malto d’orzo con un amico. Sottofondo di un violino, di un banjo e del bodhràn, il tipico tamburo a cornice gaelico. Una sensazione di pace e calma, un desiderio di felicità semplice e naturale che l’ultima terra incontaminata d’Europa ci ha sempre promesso e donato. Un ultimo rifugio in cui assaporare una vita scandita soltanto dalle stagioni, dal cielo e della terra. E sebbene artisti come gli U2 ci abbiano sempre mostrato un’Irlanda diversa, dolorosa, insanguinata e post-industriale (Sunday Bloody Sunday, Shadows And Tall Trees, Out of Control), la magia di quei luoghi ne rimaneva tuttavia intatta, immacolata come un giglio di Kerry al mattino.
E proprio così l’isola immaginaria di Inisherin, raccontata dal bravissimo regista Martin McDonagh (premio Oscar con Tre manifesti a Ebbing, Missouri), al centro delle vicende del suo nuovo film Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin). Un perfetto incedere magico e ritmico dell’animo irish.
La sua bellezza risuona per tutta la pellicola, donandoci visione e orizzonte. Un vero e proprio balsamo per i nostri occhi, testimoni di vite trascorse per lo più dentro piccoli e angusti spazi domestici. Un universo chiuso, in cui il tempo sembra non scorrere, non esistere perché infinitamente piegato e ripiegato su di sé.
Fino a quando il gentile e pacato allevatore Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell – The Lobster, 13 vite) non scopre che il suo amico, Colm Doherty (Brendan Gleeson – Herry Potter, Codice Criminale) non vuole più parlargli. Non vuole più bere nemmeno una pinta a quel pub dei sogni che si aggrappa alla ruggente costa occidentale dell’isola.
Lo screzio si diffonde in tutta la minuscola comunità, coinvolgendo altri personaggi, tra cui la sorella di Pádraic, Siobhán, (una spigolosa e materna Kerry Condon), il barista, la droghiera, perfino gli animali da compagnia (mucche, asini e cani pastore). La storia dei due amici di Inisherin, capitolo finale di una trilogia teatrale (Lo storpio di Inishmaan – 1996, Il tenente di Inishmore – 2001) si espande così gradualmente, in una narrazione lenta ma inclinata. Un semplice rifiuto che assume forza radicale, che trascende alla volta di sentimenti e dolori ancestrali, fino a sfiorare la sofferenza nella sua finitezza suprema. E così gli ambienti poveri in muratura e legno, la “desolazione paesaggistica e interiore”, “il silenzio frastornante e la malinconia degli animi”, la fatica, l’insoddisfazione che sembra regnare tra queste terre. Molti vi hanno intravisto in questo paesaggio oleografico e letterario delle precise pennellate di vuoto esistenziale, di una noia (tutta borghese) da colmare con dell’altro.
Ma nel litigio tra i due vecchi amici, tra l’innocente bisogno di una birra in compagnia di Pàdraic e l’ansia e la tirannia del tempo che vive Colm, indaffarato a comporre una sonata per violino (intitolata non a caso The Banshees of Inisherin) da tramandare ai posteri, vi è l’innesco di tutta la tragedia umana: un atto di hybris, di rottura dell’equilibrio cosmico. La fuga interiore da qualunque paradiso terrestre o celeste, che accoglie, nutre ma che in fondo non soddisfa mai pienamente. Proprio in questo scontro/incontro tra l’eterno presente di Pàdraic e la sete disperata di immortalità di Colm, tra un ciclicità celtica, druidica e naturale e il bisogno metafisico tutto cristiano e moderno di Colm, si racconta di una Irlanda immaginaria quanto simbolica, crocevia di tutte le pulsioni di vita e di morte del nostro continente Europa.
Ma quello che rende questa pellicola ancora più intensa, ora irreale come un trompe l’oeil artigianale, ora dirompente e ruvida come una tela di John Constable sono soprattutto due elementi in calce, collaterali al fulcro scenico. Ma che, nel dipanarsi degli eventi che perdono gradualmente leggerezza, lasciano spazio ad una consapevolezza svelata quasi di nascosto, di rapina. Vi è infatti in filigrana un costante isocronismo, un movimento a pendolo tra due poli scenici, apparentemente in contrasto ma invero complementari.
Se le corde del suo violino avevano spinto Colm alla ricerca di una velleitaria immortalità, sull’isola vi è una “presenza”, un profilo “hauntico”, ossessionante quanto incerto, di una presunta banshee, una “donna delle fate” (che si dice siano visibili solo a chi sta per morire) ovvero l’anziana e logora signora Mc Cormick (Sheila Flitton), capace di angosciare tutti quelli che incontra, magari soltanto per la sua prossimità alla morte. Da qui i nostri piccoli, risibili escamotage per ingannare l’oblio, le nostre brevi melodie nella notte in grado di sopravanzare quel tetro suono di sottofondo, quel riverbero nero, segno della brevità e dell’insensatezza di ogni cosa su questa terra. Una disperazione comune, addolcita da un’altra presenza, quella fiabesca degli animali: capre, mucche, cani e la dolcissima asina Jenny. Il loro sguardo è vivo, accogliente, quasi comprensivo delle piccole grandi tragedie che percorrono il nostro passaggio sull’isola. E, infrangendo quella linea tassonomica tra animalità e pre-umanità, essi in fondo ci ricordano la profonda semplicità di un esistenza che può essere anche ricca e appagante. Un po’ di carote, un po’ di sole, un giaciglio dove riposare e le carezza di chi ci ama.
Tutti sentimenti che si scolpiscono sul volto del bravissimo Pàdraic – Farrell, che ci regala linee bonarie e sorprese fino a una durezza sempre più consapevole e disperata, ma in fondo pronto ad accogliere tra le sue guance e la sua fronte sempre più rigide il dolore dell’abbandono, dell’indifferenza, dell’umanità insomma. È lui, il Pàdraic-Farrell, a mostrarci la dura consistenza delle cose. La nostra realtà, fatta di magia, di sovrannaturale, di presenze buone e cattive, di simpatici amici e di amici che ci abbandonano. È la nostra grandezza, la nostra disperazione di esseri rotti e angelici. E quelle scogliere, quel mare e quel vento che tengono tutto in piedi. Tutto questo tremendo e imperdibile teatro umano.
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