Ne I dannati, Roberto Minervini, all’apparenza, racconta la guerra civile americana con lo sguardo gelido e impersonale del cronista. Rimanendo ancorato a principi cari al documentario, si immerge in un ambiente e descrive un breve lasso di tempo più che narrare seguendo strutture tradizionali. Pedina a breve distanza i suoi soggetti, spesso li ritrae di spalle o intenti in azioni prive di rilievo nello schema più grande del conflitto. I momenti morti assurgono al ruolo di protagonisti e il film diviene il resoconto delle attese e delle esplorazioni senza risultato del plotone. La stasi, che si protrae tanto a lungo da diventare la principale condizione di vita sul campo di battaglia, è interrotta soltanto in un unico fugace segmento. Il nemico resta (quasi) sempre fuori campo, rappresentando più un’idea astratta che un fatto concreto.
Un war movie atipico, dunque, in cui gli uomini sembrano assediati soprattutto dai loro tarli interiori poiché dei soldati delle fila opposte non si scorgono che le ombre o i profili, minacciosi ma comunque indefinibili. Il grande avversario, come da lunga tradizione soprattutto herzoghiana, è invece la natura: il ruolo che assume non è solo di sfondo, spesso sfocato, della vicenda; dentro di lei – come in uno specchio – si riflettono i dubbi e il sentire dei militari.
Ma andiamo con ordine. Nell’incipit, un’inquadratura che proviene da un occhio nascosto dietro alle fronde spia tre coyote impegnati a cibarsi della carcassa di una preda. Siamo nel 1862, un manipolo di volontari nordisti è stato inviato a presidiare i confini all’estremo ovest degli Stati Uniti. Sono luoghi freddi e inospitali, per la maggior parte inesplorati. Vere e proprie badlands. Il paesaggio è fonte di grande suggestione per coloro che lo attraversano. Tanto i più esperti, quanto i più giovani – trovandosi allo scoperto, in un’ignota regione di frontiera, molto lontani da casa – sono presi dall’incertezza.
L’indeterminatezza della situazione li porta a confrontarsi in autentici momenti di auto-coscienza e condivisione. I quesiti che pongono mancano di facili soluzioni, né – date la circostanze – è possibile eluderli con lo spirito di praticità tipico degli uomini d’armi. Ogni dialogo sfiora tematiche universali che spesso sfociano nel filosofico: il dovere nei confronti della patria, l’importanza delle proprie radici, il rapporto con la religione, il senso ultimo della guerra. Cosa significhi, in fondo, essere uomini.
Il più fermo nelle proprie convinzioni è, paradossalmente, il più giovane di questi soldati senza nome, forte della propria fede e sicuro degli ideali dello Stato nascente. Un agguato inatteso costringe alla separazione i componenti del contingente, che si dividono fra chi si imbarca in una disperata missione di ricognizione e chi rimane a guardia dell’accampamento. Entrambe le strade conducono quasi certamente alla morte.
Concentrandosi su una storia nella Storia, che quasi sembra presentarsi come alternativa alla narrazione del grande evento, il film mette in scena le gesta inutili di un gruppo di dimenticati con la volontà di dipingere un piccolo ritratto anti-epico dal ritmo sospeso e meditativo. Lo sforzo compiuto è valso a Minervini il premio (in ex aequo) per la miglior regia nella sezione Un Certan Regard a Cannes.
Ma non è la prima volta che il tempo di guerra viene sottoposto a tale decostruzione narrativa e che l’apparato di un film agisce in sottrazione tentando di ribaltarne i cliché e riscriverne le coordinate visive. Da Terrence Malick a Ermanno Olmi, un simile approccio a tale soggetto è ormai ben noto e la sensazione di assistere a una ripresa poco originale e meno ispirata dello stesso modus operandi è costante. Così anche le scene dal respiro più lirico – in cui dalla cronaca si passa al romanzo, dalla prosa alla poesia – si espongono al rischio della retorica, come al perdurare della contemplazione subentra la ripetitività e l’impressione di un modesto sviluppo concettuale.
Il 2024 ha già regalato tutt’altra rappresentazione della guerra civile, stavolta distopica e urgente, agli antipodi rispetto ai Dannati. Il Civil War di Alex Garland, con il suo stile ipertrofico, appare alla ricerca di soluzioni espressive e narrative più rischiose nel tentativo di dare risonanza alle ansie e ai turbamenti di un’epoca, e forse per questo sembra più capace di interrogare il reale.
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