«Quando l’ordine in città è affidato ai proprietari dei ranch e non più allo sceriffo ecco che si arriva sempre allo stesso punto. Entrano in scena le pistole». È questo, in soldoni, il frame, il codice sorgente che regola Fallout, la bellissima serie tv in otto episodi ideata per Amazon Prime Video da Geneva Robertson-Dworet e Graham Wagner e sviluppata da Jonathan Nolan (Westworld e Person of Interest), fratello del celebre regista Christopher Nolan. L’idea dei creatori era quella di portare sul piccolo schermo le atmosfere del famosissimo franchise di videogiochi omonimi sviluppati a partire dagli anni ‘90 dalle case Black Isle Studios e Bethesda Game Studios (Fallout, Fallout 2, Fallout Tactics: Brotherhood of Steel, Fallout 3, Fallout: New Vegas, Fallout 4, Fallout 76).
L’apocalisse nucleare ha spazzato via la civiltà umana come la conosciamo e un migliaio di americani vive nei Vault, bunker sotterranei concepiti dalla Vault-tec per ospitare moduli abitativi tecnologicamente autonomi dalla superficie. Il racconto di Fallout si innesca quando per un motivo o per un altro (nel videogioco si rompe una componente del computer responsabile del riciclaggio dell’acqua) il personaggio principale è costretto a uscire dal Vault per affrontare la Zona Contaminata. Ovvero, quello che è rimasto della vecchia California, nuclearizzata e abitata da genti sopravvissute per 200 anni e preda di radiazioni, mutazioni, postumi bellici e violenza generalizzata.
La protagonista della serie, l’ingenua ma cazzutissima Lucy MacLean, interpretata da una bravissima Ella Purnell, è costretta a uscire dal luogo in cui è vissuta felicemente per 20 anni (i Vault sono costituiti da una serie di tunnel, grandi sale per la socializzazione e campi di grano provvisti di finti sfondi bucolici e luce solare posticcia) per cercare in superficie il padre, rapito in un raid da sciacalli infiltratisi con l’inganno nel suo Vault.
Inizia così un lungo viaggio in una regione devastata dalla catastrofe nucleare ma, soprattutto, dalla violenza e dall’indifferenza umana. È qui che Lucy incontrerà gli altri due personaggi della serie. Maximus (Aaron Moten), impostore che si spaccia per cavaliere della Confraternita d’Acciaio, un esercito religioso che prende a modello i cavalieri delle Crociate e che indossa esoscheletri d’acciaio a propulsione atomica. E il Ghoul, un misterioso cacciatore di taglie interpretato da un magnetico e jacknicholsonesco Walton Goggins (The Shield, CSI, Hateful Eight), che diventa il filo narrativo di tutta la storia. Sfigurato dall’esposizione alle radiazioni, questo necrotico post-umano ha vissuto per due secoli e si rivela il filo conduttore emozionale e storico alla serie. Ha infatti vissuto in prima persona il 2077, anno della guerra termo-nucleare tra USA e Cina.
Già, ancora lei, la Bomba. Anche il fratello Christopher Nolan ha sfruttato a pieno questo tema. L’angoscia della fine, la paura di quello che ci sarà (o non ci sarà) dopo. Ma mentre nel film Oppenheimer (vincitore di sette premi Oscar) la fine di tutto è soltanto un’angoscia, un pensiero partorito delle menti più eccelse del passato (Albert Einstein e appunto Robert Oppenheimer), qui in Fallout la fine e soprattutto il suo nuovo inizio sono vissuti da tutti.
La società dei Vault, protetta ermeticamente dall’esterno, è rimasta ancorata antropologicamente agli anni ‘50-‘60. E così tutta l’estetica e il concept design di questa civiltà sotterranea sono elegantemente inchiodati alle tendenze di quegli anni, allo stile streamline (ma anche steampunk) degli oggetti, dei macchinari, delle tute fino ai tagli di capelli, ai brani di Nat King Cole e Glen Miller e all’ottimismo e il buonismo tipici dell’inizio boom economico americano. Mentre in superficie i panorami e le atmosfere sembrano quelli tipici degli scenari post-apocalittici di produzioni come Mad Max, The Road, Last of Us e Walking Dead. Ma non è veramente così. E proprio le vicende che si susseguono attorno al Ghoul – il deserto, le stazioni abbandonate, l’uso dei cavalli e dei fucili a pallettoni, le musiche di Buck Owens e Johnny Cash – restituiscono ben altre atmosfere. È tutto lì, il nocciolo della questione. La frontera, la vecchia corsa al West, il sogno americano. Ancora lui.
La vita, quella vera, quella sgorgante, violenta e indomabile gira ancora fuori dalle mura protette del ranch-Vault. Le cose succedono quando si decide di lasciare il proprio recinto e ci si mette in viaggio. Fallout è un tentativo (riuscito) di farci rivivere quelle atmosfere yankee, dei bounty-killers, dei mandriani, senza dircelo direttamente. È il luogo centrale in cui si è sviluppata la coscienza ma soprattutto l’autocoscienza americana.
Ed è così che il Ghoul, da orribile villain si trasforma lentamente, diventando il vero motore narrativo e ideologico della serie. Come in molti vecchi film western, il più spietato è colui che ha un vissuto tremendo e insostenibile. Quindi si finisce per fraternizzare, per accettare e sostenere quel soggetto come vero (anti)eroe. E sarà infatti lui ad affiancare la giovane Lucy nella difficile avventura che l’attende.
Proprio Lucy nonostante l’elegantissima suit gialla e blu elettrico, i modi cortesi e gentili, l’apparente ingenuità e dabbenaggine nei modi di porsi in quel mondo crudele e spietato, rappresenta lo spirito della prateria, quel sentiment delle tante giovani donne delle fattorie che hanno sorretto i nascenti States di fine XIX secolo, cresciute nella pancia di una società rustica e innocente. Ma che ti chiede di saper maneggiare armi letali, di avere fegato da vendere e soprattutto di sacrificare tutto per quell’amore incrollabile per la famiglia, i buoni sentimenti e la giustizia.
Una perfetta americana pronta a sfidare le Westlands, le terre selvagge per il bene di tutti. Il suo ma anche il nostro. Rappresenta la speranza, la visione profonda, deep ma anche dark della star and stripes people. Contro tutti i poteri. Contro la Fratellanza d’Acciaio – non molto distante dalla tipica brutalità ottusa e tracotante dell’esercito statunitense (quelle delle giubbe blu di Soldato Blu e di Balla coi Lupi) ma soprattutto contro i fondatori stessi dei Vault (i proprietari dei ranch fuor di metafora, ovvero coloro che detengono il potere economico e politico mondiale). Insomma, una tipica storia americana, dei deboli ma puri di cuore contro i potenti violenti e bestiali. Tutto in linea? Mica tanto.
In fondo Lucy è il fiore più puro e resistente proprio del Vault 33. Un luogo in cui si pratica una sorta di democrazia diretta, dove si dividono i frutti del duro lavoro agricolo e di manutenzione del bunker. Un paradiso nato sulle ceneri della violenza e della stupidità umana. Dove i sentimenti fraterni, amicali, sono puri e sinceri. Ma dove è stata anche immaginata la fine del mondo.
Cosa vogliono dirci i creatori della serie, allora? In questo cortocircuito tra buone intenzioni e angosce da distruzione dei mondi anni ‘50 non rivediamo in fondo la nostra società attuale?
Non è forse vero che dalle società più atroci e brutali, nate grazie a complotti mondiali e stermini di popolazioni del terzo e quarto mondo, sono nati i prodotti più puri della politica, della filosofia, dell’arte e dei sentimenti umani?
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