Categorie: Film e serie tv

Il Necromante della porta accanto: su Netflix, la storia di Jeffrey Dahmer

di - 7 Novembre 2022

Nel 1994 lo storico Eric Hobsbawn scrisse un grande libro, “Il Secolo Breve”. Testo finissimo di storia contemporanea, reputato il migliore del suo genere. Tra le pagine spiccava un’affermazione alquanto provocatoria. Per lo storico londinese, infatti, gli europei, da sempre conquistatori di terre e sterminatori di popoli, avevano condannato brutalmente Hitler solo perché aveva avuto l’ardire di portare certe “pratiche” nel cuore del vecchio continente. Qualcosa di simile è successo a Jeffrey Dahmer, celebre serial killer, protagonista della miniserie tv Netflix più vista degli ultimi anni. “Monster: the Jeffrey Dahmer story”, ultima fatica del prolifico showrunner Ryan Murphy (“American Horror Story”, “American Crime Story”, “The Watcher”) e di Ian Brennan (“Glee”, “LawOrder”).

Sembra infatti che la vera, inaccettabile colpa del ragazzo biondino di Milwaukee, non sia stata in fondo quella di aver massacrato, deturpato, mangiato e musealizzato 17 uomini tra il 1978 e il 1991. Ma quella di aver costretto le famiglie americane a guardare sulla Abc o su Fox News scene orripilanti, che ricordavano più un documentario della Nat Geo sulle tribù antropofaghe melanesiane o qualche reportage sui conflitti inter-etnici in Congo o Ruanda. Un lavoro, questo di Murphy, che ha riaperto una faglia di dolore, razzismo e violenza sepolta da decenni. Una storia, quella del mostro di Milwaukee, che sembra scritta apposta per smuovere ogni apparente equilibrio sociale, politico e antropologico dell’America moralista e benpensante uscita dai difficili anni ’80.

Stilisticamente essenziale nell’impianto e nella caratterizzazioni visive e narrative, il Jeffrey Dahmer di Evan Peters dopo la cattura inizia un viaggio a ritroso interiore, dantesco, verso l’ignoto. Prima i ricordi pieni di luce di quando era ragazzino, al liceo, le sue passioni, la sua gioia di scoprire e di crescere. Ma poi tutto cambia. Madre psicopatica, padre assente, abbandoni, solitudine e il Jeffrey adolescente con le prime pulsioni sessuali e la passione per la tassidermia, con cui sezionava piccoli animali trovati morti sulla strada o nei boschi vicino casa. Un piccolo bagaglio tecnico ereditato dal padre Lionel, chimico ricercatore, che si rivelerà uno sconsiderato mezzo di occultamento.

Efficace il gioco di intervalli dei direttori della fotografia Jason Mc Cormick e John T. Connor per connotare le luci del giorno, dell’adolescenza vissuta nella casa dei genitori in opposizione all’opprimente illuminazione giallo-ocra degli occhiali di Jeffrey, degli ambienti infernali e delle scene più tensive, psicologicamente opprimenti e dolorose. Tutte svolte nel famoso Oxford Building, in un quartiere dormitorio di una città in cui sembra sempre notte, in cui c’è solo l’oscurità dei locali, dei bar e della violenza di Jeffrey. È qui che l’orrore prende forma ripetuta, usuale, rituale.

Sarebbe stato facile per gli showrunner giocare sulle atmosfere slasher, alla Leatherface di “Non aprite quella porta” (in una delle lettere di un fan Jeffrey diventa “My Freddy Kruger”, il noto villain con la faccia ustionata della serie di film “Nightmare”). E invece gli episodi di violenza sono soltanto accennati, ripuliti da immagini crude, rafforzati dai silenzi, le pause, gli sguardi in attesa dell’irreparabile.

Più si procede nella liturgia dell’omicidio, della spoliazione e mummificazione più il Dahmer-Evans, che “recita con gli occhi”, sembra avvolgere le sue prede (anche lo spettatore) in una sorta di tela viscosa, di ragnificazione umana e ambientale, in cui le sue vittime non hanno scampo. Sporca e maleodorante per gli altri ma non per lui, nella tana tiene “tutto” insieme: polaroid, pezzi di corpi, teschi, ricordi, memorie fisiche. Le stesse operazioni di smaltimento (sparpagliare ossa in giardino, una testa nel frigo o interi scheletri conservati) non si staccano mai dalla dimensione affettiva e pulsionale, dal suo tentativo disperato di tenere in vita qualcosa che invece ormai è solo materia chimica e non più biologica, pulsante, viva.

In Jeffrey sembra dunque riemergere dal nulla la dimensione predatoria, selvatica, oscura dei nostri antenati. Uno stato di natura primordiale, di un’umanità infantile e cannibalica, sganciato da qualsivoglia dimensione storica-culturale, anzi immerso in una delle società più urbanizzate e avanzate del tempo. In questo suo lucidissimo e terribile percorso di auto-disvelamento il serial killer di Milwaukee ha tentato di attingere al demoniaco, al necromantico, con la progettazione di altari e diorama museali per darsi una lettura, una traiettoria che non fosse la semplice pazzia o il semplice Male.

Ma quello che Dahmer non poteva sapere è che altre forme di mostruosità sussistevano attorno a lui, ugualmente brutali perché sistemiche, che imperavano nella società in cui era cresciuto. Se tutto sommato è sempre facile definire il serial killer attraverso i suoi omicidi, più difficile (e la serie lo sottolinea costantemente) rimane coglierne la visione, il contesto, le condizioni ugualmente allucinanti in cui sempre nasce un soggetto del genere.

E il fenomeno Dahmer è appunto il frutto di una serie incredibile di eventi, lassismo, sviste, discriminazioni, abbandoni, indifferenza, falsità e ipocrisie collettive nelle istituzioni, nelle relazioni, nella famiglia, nelle fondamenta insomma della società americana degli anni ’80 e ’90. In cui, nonostante un periodo florido, ricchissimo di idee, cultura, libertà e ricchezza, vi si respirava una sistemica permissività verso i bianchi quanto una sospettosa indifferenza verso le comunità gay e black, perfetti capri espiatori dell’epidemia di Aids e della violenza di strada, culminata nei riot di Los Angeles del 1992.

Impietosa la differenza tra le tante opportunità gettate al vento da Jeffrey (l’università, l’esercito, lavori dignitosi) e le condizioni dei ragazzi di altre etnie costretti a vendersi, ad accettare 50 dollari per delle foto. La stessa cattura di Dahmer non è il risultato di una hunting, del lavoro di poliziotti coraggiosi alla “Mindhunter” o in stile “Il Silenzio degli Innocenti”. È frutto del coraggio del 32enne Tracy Edwards capace di sfuggire alla morsa di Jeffrey e di portare (per la seconda volta) i cops dentro la sua tana. Di caso e improvvisazione.

Ma come la tela del ragno può essere viscosa per imbrigliare, così le ghiandole sericigene possono produrre un’altra qualità, non collosa ma in grado di tenere in piedi una forma, uno spazio geometrico, spesso invisibile. È, quella, la tela dei media, che ha sostenuto tutta la “struttura”, e quella in cui siamo ricaduti dopo tre decenni. Un film con John Voight, un libro autobiografico immaginati dal padre di Jeffrey, Lionel Dahmer. Le migliaia di ore e di dirette televisive, le migliaia di pagine di giornali, gli inquietanti speciali MSNBC di Stone Philips e l’edizione #InsideEdition della famosa Nancy Gloss, con i Dahmer, padre e figlio, impegnati in un faticoso, doloroso ma altrettanto scenico flusso di coscienza e di pentimento in prime time. E poi fumetti come quello del compagno di classe di Jeffrey, Derf Backedrf “My friend Dahmer”, tre film, tre serie tv (tra cui la terza stagione di “Conversazioni con un killer: il caso Dahmer” uscita in contemporanea con quella di Murphy).

Ancora una volta la legge dei media, fonte primaria di sentimentalismo, politicamente corretto, moralismo e conformismo, esprime di contro le proprie tendenze attraverso un volume di fuoco ferocemente a-morale, fiutando il dirompente bisogno voyeuristico dell’audience e ignorando ogni rischio di emulazione, di esaltazione, di fascinazione collettiva verso questa storia. E non sfugge ai più attenti quella performatività da showmen navigati, quel phisique du role di padre e figlio Dahmer, totalmente a proprio agio nella dimensione iper-mediale del dopo arresto, in cui accettano di calarsi. Il mostro e suo padre.

E anche questo ultimo show di Netflix non fa eccezione. Ha tramortito le coscienze, riaperto i cassetti di foto e ricordi, ravvivato quel dolore mai veramente sopito, proprio perché collettivo, che squarcia quel clima con l’odio, le differenze e le diffidenze sociali e culturali ancora vive tutt’oggi, come denunciano la comunità LGBTQIA+ insieme ad altre minoranze.

A questo punto sembra emergere un’altra necessità, ulteriore rispetto al realismo spacciato per “rispetto” con cui Netflix si è presentata al mondo con questa produzione, pulita ma fredda, glaciale. Non solo un riconoscimento pubblico e un risarcimento morale e civile per le vittime ma, soprattutto, la necessità in futuro di un loro coinvolgimento autoriale, narrativo, in storie come queste che, probabilmente, non possono essere più raccontate da un manipolo di (bravissimi) attori, registi e produttori. Servono sempre più dei collettivi, una rete di persone, di vite, di esperienze, di prospettive. Quello che forse avrebbe potuto salvare le vittime da Jeffrey Dahmer e Jeffrey da se stesso.

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