In “The Right Stuff – Uomini veri” (1983), film dedicato al gruppo di piloti americani impegnati durante la Guerra Fredda nel rischiosissimo programma di voli suborbitali Mercury della NASA, Philip Kaufman descrisse con una fantastica sequenza di volo l’impresa di Chuck Yeager, primo uomo a superare nel 1947 il muro del suono (Mach 1, 1226 km/h) con un aereo sperimentale X-1. Il velivolo arancio, la tuta e accessori in pelle, la qualità delle riprese e del sonoro. Tutto era vintage in quelle spettacolari riprese di Kaufman, divise tra virate, nuvole e la linea dell’orizzonte che ruotava incessantemente assieme alla figura mascherata del pilota. Nella prima scena di volo di “Top Gun: Maverick”, sequel del celebratissimo “Top Gun” (1986), Tom Cruise e il regista Joseph Kosinski hanno voluto rendere omaggio a quell’incredibile sequenza interpretata dall’attore Sam Shepard, portandoci dentro l’abitacolo di un immaginario jet ipersonico “Darkstar” (ispirato a un Lockheed Martin SR-72) per trascinarci dentro la furia elementale, potente e incontrollabile, umana e divina della velocità supersonica.
Sarà appunto Tom Cruise, nuovamente nei panni del mitico Pete “Maverick” Mitchell, a tentare di raggiungere la soglia di Mach 10 (12.250 km/H) e a regalarci quella antica quanto nuovissima ebrezza del limite, quel fremito di lamiere incandescenti che fendono le nuvole, di componentistica che trema nell’abitacolo lanciato nel blu del cielo e riflesso negli occhi del pilota, in un intreccio feroce di tecnologia, cuore e pericolo estremo. Due scene distanti 40 anni ma con lo stesso obiettivo. Essere accanto a questi piloti, lì con loro.
È tutta lì la potenza del cinema. Donarci sensazioni che altrimenti non avremmo mai la possibilità di vivere. Il paradosso poi sta nel fatto che questa scena, forse la migliore in termini registici, è l’unica fasulla. Sì, perché “Top Gun: Maverick”, blockbuster da 150 milioni di dollari (il primo ne costò appena 15) girato da Kosinksi (Oblivion, Tron Legacy, Fire Squad) è un capolavoro di realismo e sperimentalismo tecnologico.
Alle prese con una missione suicida – la distruzione di un deposito di uranio utilizzato per arricchire ordigni nucleari tra le montagne di una non precisata regione del mondo – il vecchio Maverick ha il compito di addestrare un gruppo di giovani top gun, dotati tecnicamente ma totalmente privi di quel cuore, di quell’istinto (killer instict?) che contraddistingueva la vecchia generazione di piloti.
E forse è qui, tutto qui, il “problema” del film. Che poi non è un problema di film ma di epoca. Della nostra epoca. Un’era tecnologicamente e formalmente purissima ma totalmente cava. Le camere Sony Venice Rialto, dalle dimensioni di una GoPro ma con performance IMAX, inserite in più punti all’interno e all’esterno degli abitacoli di veri Boeing F/A 18F Super Hornet dei Top Gun americani e degli avanzatissimi Sukhoi Su-57 Felon di fabbricazione russa, hanno reso possibili sessioni di riprese mai viste prime. Volti tirati per la gravità, corpi sballottolati negli abitacoli, teste che roteano in cerca dell’avversario, senso del vuoto puro e insuperabile. Un’esperienza visiva irripetibile.
Un cinema iperreale e tridimensionale, barocco, perché imprevedibile e fuggevole. Anzi quadrimensionale perché il cronometro nella sua forma più pura e stringente entra continuamente nel conteggio narrativo della trama. Qualcosa che gli spettacolari (e fintissimi) film di Star Wars (ampiamente citato) non sono mai riusciti a trasmettere, a riprova che la realtà è il più grande effetto speciale mai inventato. Ma cos’altro?
In fondo, il vecchio “Top Gun” era tanto altro. Pellicola geniale e scellerata per qualcuno («I montatori si trovarono a dover inventare un film da un mucchio di riprese aeree senza senso»), è stato un fenomeno di costume, di stile, di sottocultura macho e gay allo stesso tempo, che ha fatto scuola nel cinema d’azione e nell’immaginario collettivo. Un film di guerra che viene ricordato non tanto per le (bellissime) scene di combattimento quanto per una partita di beach volley, per una scena di karaoke in un bar frequentato da marinai e per una sfida di adrenalina tra una Kawasaki Ninja 900 e un F-14 Tomcat al tramonto. Un videoclip promozionale per la US Navy assetata di nuove leve in tempo di (troppa) pace ma anche un longplay con alcune hit di quella estate ’86 (Playing With The Boys e Danger Zone di Kenny Loggins e l’immortale Take My Breath Away di Moroder/Whitlock).
Accompagnato da altri film di “guerra” del tempo come “Predator” di Schwarzenegger (1987) e “Rambo II” di Stallone (1985), questi ultimi rappresentavano in modo fantasioso e irreale quella assurda sete di azione, di confronto, di lotta di parte della società e dell’audience americana degli anni ’80 (e che Kubrick, invece, con “Full Metal Jacket” cercò di esecrare, rieducare, avvertendoci che no, non erano affatto finite le guerre americane). E per quanto finte e immaginarie, quelle erano guerre sporche, sudicie, combattute nel fango, contro alieni e russi (a quei tempi considerati la stessa cosa). Quella di Top Gun invece riportava un’idea di confronto perfetto, di una guerra elegante, immacolata, senza città sventrate, con combattimenti eroici ma soprattutto senza morti, perché invisibili agli occhi delle tv e delle breaking news sempre più onnipresenti (come dimostrerà la prima Guerra del Golfo). Una guerra senza guerra insomma, un confronto giocato come una partita di football americano, da ragazzoni del collage, biondi e muscolosi, pettinati e con un futuro radioso davanti. Tutti vincono perché il nemico non c’è.
Qualcosa che sussiste anche in questo “Top Gun: Maverick”. La “rule of cool” americana, la guerra di rude cowboys condotta da un Captain America, per nulla invecchiato e pronto a portarci alla Vittoria, è tutta lì, è ancora lì. Ben diversa dalle orribili scene della soldataglia russa, male armata, male addestrata, che cammina come zombie tra le rovine di Severodonetsk e Charkiv, come usciti da un vecchio documentario sulle guerre balcaniche. È questa la realtà, durissima, quella che entra nelle nostre vite e che ci angoscia. Cosa sceglieremo di guardare?
«La fine è inevitabile, Maverick. La tua razza è destinata all’estinzione».
Ce lo ricorda l’ammiraglio Cain, alias Ed Herris, che interpretava proprio uno dei piloti eroi di “Uomini Veri”, John Glenn. E anche questo è vero. Piloti con lunghissimi addestramenti e velivoli milionari non reggono più il confronto con gli UAV, i velivoli senza piloti come i Predator incredibilmente meno costosi, o come i droni da poche centinaia di euro usate dalle truppe sul campo.
Insomma, il supertecnologico e visionario “Top Gun: Maverick” parla di un mondo in via di estinzione. Ma, in fondo, non è solo la specie dei piloti top gun ad essere a rischio. Anche quella purosangue di star come Tom Cruise è destinata a scomparire. Probabilmente film del genere, totalmente dipendenti dall’aura e dal carisma di un attore così longevo e uguale a se stesso non sono più concepibili, in un era in cui i volti, le carriere e le saghe si bruciano prestissimo. E allora non resta che goderci quest’ultimo volo, insieme a Tom, finché avrà benzina in corpo, finché riuscirà a far decollare l’ultimo Tomcat, lì, tra i raggi verdi dell’ultimo tramonto.
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