Meta-parodia, meta-critica o meta-ruffianata? “Matrix Resurrections”, quarto capitolo della saga, gioca talmente tanto con se stesso da auto-pungolarsi e spesso proprio nei suoi punti deboli. È indubbio che la pesante eredità lasciata dalla trilogia – che di sequel in sequel è andata sempre più sbiadendosi – rendeva impossibile non affrontare l’elefante nella stanza: non è stato detto tutto, è stato detto troppo.
Alla fine dello scorso millennio, ci venne proposta un’opera in cui concetti come la realtà e la percezione di essa, la conoscenza del vero come mezzo emancipativo, la dialettica del libero arbitrio, venivano espressi tramite un simbolismo semplicistico ma anche abbastanza allusivo e sibillino, al punto da riuscire a creare una poetica iconica. Con “Matrix Reloaded” e “Revolution”, nonostante una progressiva banalizzazione degli elementi squisitamente filosofici, l’arco narrativo di Neo veniva a concludersi con l’estremo sacrificio coinvolgendo, almeno emotivamente, lo spettatore affezionato. Come tirare per le lunghe, allora, qualcosa di autoconclusivo? Trattare direttamente l’argomento esibendolo ripetutamente, non nascondendosi dietro un dito ma ammiccando al pubblico di continuo, forse anche troppo.
In quest’ultimo film, Neo (Keanu Reeves) e Trinity (Carrie-Anne Moss), infatti, sono stati riportati in vita dal nuovo Architetto, l’Analista (il sempre bravissimo Neil Patrick Harris), allo scopo di stabilizzare la nascita di «Nuove anomalie». Questi è un programma sviluppato da Matrix per codificare ed amministrare la problematica variabile della psiche umana, rendendo il sistema più efficiente. In questa nuova “patch” di Matrix, le memorie di Trinity e Neo sono state riscritte a tal punto da indurli a credere di essere altri individui, due sconosciuti che, fortuitamente, si incrociano sovente in una caffetteria, percependo una strano déjà-vu.
Ebbene, mentre Trinity crede di essere Tiffany, una madre di famiglia che lavora in un’officina di moto, Neo crede di essere Thomas Anderson, sviluppatore del videogame di successo mondiale chiamato proprio “Matrix”. La storia del videogioco in questione è addirittura basata sui tre film precedenti, riducendo così a opera di fantasia quello che, in realtà, sarebbe stato davvero vissuto. Come se non bastasse, quando al protagonista viene proposto di sviluppare un sequel del gioco in questione per la sua compagnia, nientemeno che la Warner Bros stessa, i dialoghi dello staff di colleghi, creativi e affini è talmente ricco di esplicite allusioni alla cialtroneria di quella fetta di pubblico affamato di ulteriori bullet-time che si percepisce chiaramente il superamento di una certa misura.
Va però detto che l’eccellente cast – da segnalare gli ottimi Jessica Henwick e Yahya Abdul-Mateen II, la fotografia di John Toll e la regia di Lana Wachoski, che rimane comunque di buon livello nonostante l’assenza della sorella Lilly – rendono “Matrix Resurrections” più che godibile. Ovviamente, però, il finale aperto e l’immancabile post-credit scene alludono a ulteriori sequel che, a questo punto, ci pongono davanti a un quesito: è possibile, oramai, parlare di finali?
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