Due artisti che elaborano due mondi difformi ma profondamente simili. Una lunga amicizia porta all’elaborazione e alla produzione di un macrocosmo che si ancora marginalmente alla terra per ricercare l’infinito del cielo, della memoria, del tempo. Wim Wenders ha, nel corso della sua carriera, affrontato in diverse occasioni l’impresa di ricostruire la vita e la poetica di un’artista, rielaborando il genere del documentario in una chiave che definirei essenzialmente poetica: in Pina (2011) ha ripercorso la carriera e l’opera di Pina Bausch; in Il Sale della Terra (2014) – co-diretto da Juliano Ribeiro Salgado – il lavoro di Sebastiao Salgado. In entrambe le opere, Wenders non si limita ad assistere, ma si inserisce come un parassita per abitare l’arte in tutte le sue forme.
Nel 2023, Anselm. Il 25 febbraio 2024 è stato presentato, in anteprima, presso il Cinema Godard di Fondazione Prada, per poi essere diffuso nei cinema da Lucky Red a partire dal 30 Aprile. Un ritratto perturbante, emotivo, vissuto. Il regista è assuefatto dalla bellezza, aggressivamente interno all’opera: occupa abusivamente gli spazi in cui Anselm Kiefer si aggira come una sorta di essere mitologico intento a ricostruire un mondo di rovine e distruzione. Wenders concettualizza l’essenziale, effettua radiografie della realtà con la cinepresa, elabora visioni poetiche. Ha plasmato la narrazione sul grande artista tedesco secondo un’impronta chiaramente personale, cercando di sottolineare questo morboso rapporto con la fine e l’inizio di tutte le cose, la genesi e l’esegesi dell’esistente, la morte e la rinascita.
Kiefer lotta con la tela, lotta con la forma, di cui cerca ossessivamente di mantenere il controllo, conscio dell’inutilità del suo gesto: tutto deflagra nella devastazione. Una distruzione, decostruzione e ricostruzione infinita di macerie vive. Agisce rovesciando litri di piombo, bruciando rami e oggetti, sottoponendo le opere a processi di modificazione in cui l’artista non può intervenire.
La pellicola ripercorre il processo creativo da cui Wenders calibra costantemente la misura; la cinepresa si muove tra zoom e distanze, tra dettagli e universi; Wenders appare intimorito dalla grandezza di questi spazi e preoccupato di essere scoperto come un intruso che verrebbe inevitabilmente punito. Il suo gesto è manifestazione della hybris: sorpassa i confini del visibile per entrare nel tempio dell’artista e violentarlo con il suo sguardo, quasi, profano. Kiefer stesso è vittima della hybris: non trova pace nella ricerca di un significato che si costruisce istante dopo istante nella sua produzione.
L’intera pellicola è una profonda e tecnica poesia visiva: musiche, riflessioni, epoche diverse che si mischiano in immagini di repertorio, opere inedite, altre nascoste, altre introvabili. Il tutto e, soprattutto, il niente. Di cui Kiefer è, si potrebbe dire, teologo.
Il tempo rimane sospeso, così come la narrazione. Per quanto ricerchi una diacronia nel ricostruire la figura dell’artista, Wenders ibrida epoche diverse. Alcune appaiono archeologia, altre preistoria, altre ancora un presente lontano nel tempo. Allo stesso modo, il tempo dell’artista è il tempo della memoria: sparso nelle pieghe dei secoli con riferimenti fugaci che non permettono di inquadrare il ricordo in epoche precise. È, per certi versi, uno sciamano tombarolo che vuole estrarre dalle rovine del passato le tracce delle sue vite precedenti.
Paul Celan è il riferimento opprimente di cui l’artista cerca di svelare gli anfratti più reconditi; Joseph Beuys il mago che lo ha iniziato all’alchimia e al nulla. Immerso, lo spettatore cerca di emergere per concepire quale sia il senso della sua stessa esistenza. Bulimico, cerca di nutrirsi senza sosta del significato di tutto ciò che lo circonda; drogato e assuefatto, ha un bisogno costante e sempre maggiore di porre domande e scoprire.
Non possiamo fare altro che agire come osservatori non paganti di fronte alla nostra contemporaneità fatiscente, mentre osserviamo il processo alchemico prendere piede, le opere modificarsi sotto il peso della realtà, il nulla prendere forma nella sua reificazione nell’opera d’arte. Possiamo solo ricordare. E Il ricordo è, dopotutto, l’unico spazio poetico in cui si può vivere sulle spoglie dell’inesistente.
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