«Una macchina per creare un terremoto continuo dell’anima», L.A. Si spengono le luci e di colpo sembra di essere da soli davanti alla vita di un uomo, di una leggenda vivente, Lucio Amelio. A quasi 30 anni dalla sua morte, Nicolangelo Gelormini, il regista che ha reso possibile questo incantesimo, plasma in un unico film i ricordi di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, con filmati e foto dell’epoca. Quello che traspare dalle immagini ed emoziona sin da subito, è la determinatezza, colta negli occhi di Lucio, che lo porterà a essere uno dei protagonista indiscussi dell’arte contemporanea degli anni ’70 – ’80, riuscendo a fare di Napoli la terra degli incontri impossibili.
Il racconto parte con una citazione di Amelio che strappa una risata ma ne preannuncia la complessità: «Morirò in piedi». Probabilmente solo un altro napoletano come Gelormini, che è stato assistente di Paolo Sorrentino, poteva cogliere l’acume tipicamente partenopeo di una figura elegante e ambiziosa come Amelio. Ma il regista non si accontenta di raccontare le sue rivoluzioni, attraverso le numerose voci dell’arte, Mario Franco, Achille Bonito Oliva, Andrea Viliani e altri. Lo mette a nudo nella sua solitudine, nella sua persona, in quel suo modo di evadere e di vedere oltre le cose che lo porteranno a fondare la Modern Art Agency.
Dal 1965, per quattro anni, Amelio mette in moto, in due stanze, al numero 85 del Parco Margherita, quella che sarebbe diventata una Lamborghini Miura dell’arte contemporanea.
Importante l’incontro con i giovani collezionisti Marcello e Lia Rumma, che aspettavano le 10 del mattino che aprisse la galleria. «La rassegna Amalfi, 1968 sarà una guida per Lucio» – ricorda Lia Rumma, infatti l’anno dopo inaugurerà la nuova sede, a Palazzo Portanna, in Piazza dei Martiri, con la mostra Il viaggio, del maestro dell’arte povera, il greco Jannis Kounellis.
Gelormini è abile nel costruire una struttura di sequenze a incastro in cui si alternano scene di vita di Lucio Amelio, come quelle raccontate con ammirazione dalla sorella Anna, che gestisce il suo archivio, e divertenti aneddoti di amici come Mario Franco che rivela uno dei trucchi usati da Lucio per far parlare di sé a Basilea. Pare che chiedesse ai suoi amici di andare in direzione a chiedere di lui, in modo che le persone, ogni volta che sentivano il messaggio «Lucio Amelio della modern art agency è pregato di recarsi in direzione», si chiedessero chi fosse questo Lucio Amelio.
Grande poliglotta, parlava numerose lingue, in particolare imparò alla perfezione il tedesco. Questo lo portò a scoprire in una piccola galleria di Berlino Joseph Beuys. L’incontro con lo sciamano col cappello è raccontato con particolare attenzione, proprio perché doveva cambiarlo nel profondo, nel modo di vedere l’arte contemporanea. Gelormini sceglie di trasmettere questo cambiamento attraverso la ricostruzione della scena, a Villa Orlandi ad Anacapri, del famoso passo di Beuys che guarda dritto in camera, manifesto poi de La rivoluzione siamo noi.
Un’altra testimonianza importante è data dal collezionista Renato Esposito, che dà una lettura completa del carattere autentico di Amelio quando racconta che andava su tutte le furie davanti alla domanda «Ma che significa? L’arte contemporanea è una bomba a scoppio ritardato – diceva Lucio – tu guarda, poi dopo, quando avrai assimilato, capirai di cosa si tratta», o come ricorda il suo assistente Thomas Arana, «Ti colpisce nella pancia e ti trasferisce qualcosa al cervello».
Gelormini segue con occhio cronologico i traguardi di Amelio regalandoci anche brevi ma intensi video dell’epoca, come quello in cui Lucio stesso, con un’aria soddisfatta, presenta il grande Cretto di Burri al Museo e Real Bosco di Capodimonte: «Qui nel Museo di Capodimonte si è registrato uno dei Fatti più clamorosi della vita artistica degli ultimi anni. L’inserimento, accanto a Caravaggio, del grande Cretto nero di Alberto Burri».
Si tratta «Del primo ingresso dell’arte contemporanea nei musei d’arte antica», dice in camera Angela Tecce, di «Un’opera in ceramica, nera, crettata, in cui dentro le fessure si insinua la luce, citando Caravaggio», aggiunge commentando l’opera Andrea Viliani.
Un altro escamotage che il regista usa per introdurre i protagonisti è il grande potere/richiamo delle immagini, che in parte emula quell’effetto a sorpresa delle pubblicità di una volta, come nel caso del ritratto di Warhol. Con questa tela, che per Lucio era stato un pretesto per portare a Napoli il re della Pop art, Gelormini apre il secondo incontro, anche questo ricco di materiale d’archivio, che porterà negli anni ‘80 al dialogo impossibile tra lo “Sciamano e il cantore dell’Effimero”.
23 novembre 1980. Terremoto d’Irpinia. Scorrono le immagini di una tragedia che sconvolge tutti. Amelio va a trovare l’amico artista Nino Longobardi al suo studio, da una sua opera nasce l’idea della collezione Terrae Motus. Lucio chiama i più grandi artisti dell’epoca per trasformare il disastro del sisma in forza creativa. Si alternano le immagini in bianco e nero dei 60 e più artisti raccolti per l’evento, fino a quella celebre di Warhol che sorregge la riproduzione gigante della pagina de Il Mattino con la scritta Fate presto, il mantra pop di una pagina impossibile da dimenticare.
Ancora una volta risuona la voce in video di Amelio che dice: «Terrae motus non è una mostra è una collezione di opere di grande respiro, di grande valore, create e destinate alla città di Napoli, per realizzare un grande museo di arte contemporanea, dove le opere nascono perché ispirate, perché prodotte da un’emozione che la città offre all’artista». Ed ecco che si vedono le immagini di Amelio, pensoso e speranzoso, che passeggia tra le spoglie mura dell’ex convento di Santa Lucia a Monte, lì dove aveva in mente di realizzare quel museo d’arte contemporanea che a Napoli mancava e che la sua persona ha sicuramente poi ispirato, come ricorda Achille Bonito Oliva.
La telecamera si sposta a Capri, a Punta Tragara, dove Amelio aveva disegnato la sua tomba facendoci incidere il titolo di un’opera di Beuys, L’isola del sonno. Pare che ci volesse mettere anche un televisore, con una sua registrazione, in cui diceva «Ma io non me ne sono ancora andato», in napoletano ovviamente.
Le inquadrature fisse degli amici che lo hanno ricordato ora sono vuote e la camera si sofferma in silenzio sulla copertina del disco di Ma l’amore no, cantata da Amelio nel 1943.
Il testo è una dedica d’amore in italiano e in tedesco che scorre tra i titoli di coda, proprio come se il suo amore fosse destinato a non dissolversi nel tempo.
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