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Poesia delle pietre: la storia di Luigi Lineri premiata come migliore Film d’arte a Montreal
Film e serie tv
Immaginate una piccola biblioteca, di poche stanze. Un uomo anziano, dai capelli bianchi che vi accoglie e che vi farà da curatore, bibliotecario, custode. In queste stanze non vi sono pagine, libri, volumi, indici eppure la lingua utilizzata è antica, ancestrale. Tutti la parliamo senza averne consapevolezza. E sarà proprio questo vecchio uomo, che parla lentamente, che scandisce e sceglie con cura ogni parola, a descrivercela e a ricordarci come usarla. Sarà lui a insegnarci la lingua dei saxa, la lingua dei sassi.
È la trama del bellissimo racconto de La Ricerca, il lungometraggio d’esordio di Giuseppe Petruzzellis sulla storia di Luigi Lineri – 86enne di Zevio che da 60 anni raccoglie e cataloga sassi di fiume e di montagna. Il regista, sceneggiatore, produttore e montatore, che ha collaborato a più di 70 progetti documentaristici, ha prodotto il lungometraggio grazie a APLYSIA (etichetta di sua fondazione nata nel 2007) e ad altri partner come EiE Film, Vessel e Lisa Fierro, al patrocinio del Comune di Zevio, del Comune di Sant’Anna d’Alfaedo e del Parco Naturale Regionale della Lessinia. Il documentario ha vinto il Grand Prix alla 42a edizione de LE FIFA – Festival International du Film sur l’Art di Montreal, il premio principale del più grande festival al mondo dedicato ai film sull’arte.
È il tempo la forza agente, il dominus invisibile, che, silenzioso e onnipresente, plasma, leviga, mastica non solo le svariate forme parlanti della selce. Ma anche i cicli di queste due appassionate ricerche: gli otto anni di lavorazione del documentario e i 60 impiegati da Lineri per costruire la sua magnifica litoteca. Due storie che si intrecciano e alimentano forme e modalità diverse ma alleate di ascolto e immaginazione.
E se le storie hanno sempre usato supporti come il papiro o la cellulosa per fissare la memoria e il destino di ognuno di noi, questa strana alleanza tra pietra simbolica e pellicola digitale porta a una nuova e avvincente avventura. Antica e nuovissima, arcaica e innovativa.
Sono semplici ciottoli, senza nulla di speciale. Vengono da luoghi silenziosi, immersi nella loro natura orografica, dormienti accanto al letto del fiume Adige e sui monti della Lessinia, nelle Prealpi vicentine. Ma quest’uomo li osserva, li raccoglie e li sceglie. In fondo rievoca ogni volta lo scarto, il balzo inconcepibile della nostra specie, che opera da sempre la trasformazione da materia ad alfabeto, la transustanziazione da roccia a lettera. Il vecchio poeta compie davanti ai nostri occhi questo piccolo/grande miracolo. Da punta a impugnatura. Da sasso ad amigdala. Da roccia inanimata, passando per strumento ergonomico fino ad arrivare a concetto esprimibile. Il sapiens di ogni epoca non si è mai fermato alla dimensione ingegneristica, freddamente tecnica delle cose. Mal tollera i limiti, i confini, gli steccati che la natura sembra avergli posto non come prigione ma come dolce recinto, come immenso giardino di vita e riproduzione. Non basta. Egli ha sempre bisogno di liberare energia immaginativa, di forza creativa. Di poesia insomma. E le mani di Luigi Lineri sembrano operare sotto questo auspicio, questo potere immortale e ultraterreno.
Una poiesis antropomorfa, attraverso cui delle semplici forme diventano animali, corpi, idee. Come le linee di un pesce, di una pecora, di un ventre femminile o di un volto umano, nei secoli abecedario della nostra immaginazione, palestra di ogni emozione che diviene geometria sensoriale e poesia spaziale. «Non è più l’animale rappresentato ma è il mito. Non è più la donna ma la femminilità. Non è più il fallo ma la creatività».
Come tornare bambini, alla forme basiche, indicibili quanto sapide. Il lavoro si chiude anche con un interrogativo. Cosa ne sarà di tutto questo? Della litoteca di quest’uomo? Di questo “monumento alla fatica”, alla ricerca, alla necessità, alla vita? Sarà ancora una volta il dominus, il tempo, a decidere? Ancora una volta riemergerà la vecchia e inestinguibile ossessione dei sapiens. Il bisogno di rendere infiniti la propria traccia, il proprio ricordo. O almeno la speranza di un’indelebilità che possa farci credere, almeno per un attimo, che tutto questo peregrinare, andare, tornare e venire abbia avuto un misterioso dono. Il dono del senso.