Il film Le otto montagne, vincitore Premio della giuria al Festival di Cannes del 2022, è tratto dal libro omonimo di Paolo Cognetti, pubblicato da Einaudi, vincitore del Premio Strega 2017, ed è una produzione italiana, francese e belga, che vede lavorare, per la prima volta insieme, alla regia e alla sceneggiatura, i due belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch.
È subito amicizia tra i due bambini coetanei Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi) nonostante le diversità: Pietro è il figlio di Giovanni (Filippo Timi) un ingegnere chimico che lavora in una grande azienda di Torino, dove vivono; Bruno (Alessandro Borghi) è figlio di un muratore a cottimo sempre vissuto in un piccolo villaggio di montagna. I genitori di Pietro affittano una casa per l’estate proprio in quel villaggio della Val d’Aosta, che diventa, negli anni, il luogo di incontro tra i due amici e la possibilità, per Pietro, di vivere la natura e la montagna.
Le incomprensioni tra il padre e Pietro diventeranno, nel tempo, sempre più profonde e porteranno Pietro ad allontanarsi da casa per molti anni, e conseguentemente anche dalla montagna, vera passione del padre. Occasione di ritorno al villaggio sarà per Pietro proprio la morte del padre che gli ha lasciato in eredità una baita diroccata. La ricostruzione della baita sarà occasione di ritrovarsi con Bruno e di molto altro…
Una piccola premessa. Sempre, quando un film è tratto da un libro, si discute se è meglio l’uno o l’altro, se il film riesce a rendere il senso del libro, se gli attori sono adeguati ai personaggi descritti nel libro, se…Personalmente, mi sembra siano due “oggetti d’arte” di cui si usufruisce in maniera diversa e come tali vadano considerati. Il libro, e non solo nel caso in specie, diventa una sceneggiatura di un’opera visuale. In quanto tale è un’opera altra dal libro, perché diversamente letta.
Vi parlerò, da spettatrice, del film. Oggi l’andare al cinema è una scelta del come guardare e del come usufruire di un film. Di un film visto al cinema, generalmente, se ne discute. Cerco allora di ricostruire il confronto post film, riportandovi la discussione, a dire il vero piuttosto animata, tra me (borbonica) e la mia “amica stambecco”, una vera sabauda montanara.
Le critiche di lei: «Non si può far fare ad uno con l’accento bergamasco, il “vero montanaro” in Val d’Aosta», «è un’ambientazione assolutamente priva di realtà: si viveva così, senza luce, senza acqua e completamente isolati cento anni fa, certamente non a 1800 metri di altezza negli anni tra la fine degli ’80 ed il 2000», «Al massimo se proprio voleva usare le candele avrebbe dovuto usare quelle bianche strette e lunghe da chiesa, certamente non i candelotti da ashram indiano», «Non si va a camminare in Nepal con uno zainetto e la felpa legata in vita trallalà», «Non si può fare la chiusa di un film di montagna con uno stambecco (che vuole rappresentare il bergamasco valdostano) a simbolo di indipendenza e capacità di cavarsela da soli, quando lo stambecco è un animale da branco». Insomma, come si è forse capito, la critica è stata piuttosto dura.
Le otto montagne è il nome di un mandala nepalese, un luogo dello spirito, un modo di concepire la vita. Quindi, forse, Cognetti nell’offrire quel titolo ci ha voluto dare un’indicazione di lettura. Il mandala in questione rappresenta un cerchio con quattro diametri, all’estremità di ognuno c’è una montagna, e al centro è disegnata una montagna molto più alta delle altre. Pietro racconta all’amico Bruno del mandala chiedendogli alla fine: «Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?». Il mandala rappresenta in realtà la diversità di approccio alla vita dei due amici. Pietro è colui che parte per cercare se stesso in un altrove. Bruno è tenacemente legato alle sue montagne e a quel modus vivendi.
Riterrei, dunque, che Le otto montagne non è un “film di montagna” intendendo con questo il racconto più o meno eroico di una scalata con delle immagini di paesaggi stupendi. Mi sembra indicativa la scena in cui i due ragazzi, Bruno e Pietro, vanno sul ghiacciaio con Giovanni. Pietro, per la prima volta di tante, avverte il mal di montagna che lo costringe a scendere. Il senso di inadeguatezza, del non rispondere alle aspettative del padre, non solo per la montagna ma anche nelle scelte di vita, lo porterà, nel tempo, ad allontanarsi da lui, e conseguentemente dalla montagna, per molti anni.
L’idea della montagna non eroica è stata ripresa e sviluppata da Cognetti in un altro libro, Senza mai arrivare in cima, dove si chiede: «Che cos’è l’andare in montagna senza la conquista della cima? Un atto di non violenza, un desiderio di comprensione, un girare intorno al proprio senso del camminare», e poi continua dicendo: «I cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi. Trovavo della violenza nel primo gesto, della gentilezza nel secondo; un desiderio di conquista contro uno di comprensione». Un’altra “narrazione di montagna” di Cognetti è L’Antonia, biografia della poetessa suicida Antonia Pozzi, amante della montagna e ottima scalatrice, correlata dalle foto bellissime da lei scattate e dalle sue poesie. Anche qui, nel rapporto con la montagna si mette molto in evidenza la figura dei maestri più che degli eroi. Mi sembra allora che la possibile “lettura narrativa” del film sia quella del romanzo formativo. Dove i “formatori” sono le relazioni e la montagna.
Le otto montagne, è infatti anche la storia di una bellissima amicizia maschile tra Pietro e Bruno. Un’amicizia dai dialoghi rarefatti come i cristalli di neve e il fiato in alta montagna, del fare insieme, del dare all’altro i suoi pezzi mancanti. Simbolo di questa amicizia nel film è l’albero trovato da Pietro nel rudere della baita. Piantato, cresce nonostante le aspettative negative, e da cui sempre Pietro ritorna. «L’amicizia è un luogo dove metti le tue radici e che resta ad aspettarti», dice infatti la voce narrante di Pietro. Bruno nella scena in cui va a trovare Pietro alla baita dopo la pubblicazione del primo libro dell’amico afferma: «Sono contento che hai trovato le tue parole». Ossia la tua strada è diversa dalla mia, ma nulla toglie alla nostra.
L’altra relazione fondante nel film è quella di Pietro con il padre. Giovanni lascia alla sua morte a Pietro una baita diroccata la cui ricostruzione, sotto l’esperta guida di Bruno, diventa il cammino di comprensione e di perdono del padre, ma anche il ritrovare la montagna, come ricerca ciascuno del proprio sé e come ricostruzione di un’amicizia adulta rispettosa e presente. In questo ritrovarsi dopo le morti dei rispettivi padri, entrambi gli amici si scopriranno molto più simili a loro: Bruno nel rigore e nella radicalità delle scelte di vita che lo porteranno al suo ineluttabile destino; Pietro nella passione per la montagna e nella capacità di creare, anche grazie ad essa, relazioni significative.
Ho trovato il film denso di molti piani di lettura e accompagnato da immagini meravigliose, credo valga davvero la pena vederlo, se non altro per discuterne.
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