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Pugni e carezze di “Strappare lungo i bordi”: la serie di Zerocalcare su Netflix
Film e serie tv
di Milene Mucci
Sarebbe d’obbligo, scrivendo di “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare, serie appena uscita per Netflix, disquisire della straordinaria qualità del lavoro di equipe di questo autore con lo studio Doghead animation, con Movimenti Production o Bao Publishing o della riuscita di una trasposizione straordinatamente efficace nella versione animata dei suoi fumetti. Cosi come sarebbe importante annotare l’importanza del lavoro sulle musiche scelte, che ne stigmatizzano l’atmosfera personale e autobiografica che caratterizza il lavoro di questo autore da sempre. Da Tiziano Ferro, Gli Ultimi, Billy Idol, Ron ad Apparat o Band of Horses per arrivare allo straordinario pezzo di Giancane, che ne è sigla e filo conduttore in varie versioni, e si intitola “Strappati lungo i bordi”.
Tutto bellissimo se non fosse che rimarremmo su un cognitivo non adatto al racconto delle emozioni che Zerocalcare ci regala con questo suo ultimo lavoro. Emozioni che impediscono qualunque ragionamento tecnico dato che “Strappare lungo i bordi “è un cazzotto nello stomaco”, una serie di fragorose risate ma anche di carezze che si susseguono senza sosta e, in questo , sopra ogni cosa, è la sua straordinaria bellezza.
A dieci anni dall’uscita del film “La profezia dell’armadillo”, tornano in versione animata i personaggi che ne furono protagonisti allora. Compresa la singolare coscienza, in forma di armadillo appunto, doppiata da Valerio Mastandrea. Sei puntate di poco più di 20 minuti che scorrono e arrivano a cuore e testa commovendoci profondamente. Lavoro doppiato in romanesco dallo stesso autore ma universale e collocabile, oggi, in qualunque periferia emozionale e fisica del nostro mondo. Che siano le periferie inesplorate del nostro cuore, delle nostre emozioni o gli spazi fisici che scegliamo di abitare come luoghi della nostra vita.
Michele Rech, per tutti Zerocalcare, in “Strappare lungo i bordi” fa da specchio al nostro vivere. Fa risuonare l e nostre insicurezze, le paure, rende poesia lo sconcerto che prende quando non basta neanche seguire “quei bordi” prefissati per capire e scegliere. «Per un sacco di tempo ho pensato che se non strappavo più un ca**», dice il protagonista. «Se tenevo tutte le bocce ferme immobili, almeno non facevo altri danni. Solo che non funziona così, perché se tieni quel foglietto di carta in mano per dieci anni, pure se non lo strappi, quello se ciancica. Te sudano le mani, se fracica, lo pieghi a forma di ranocchia. E dieci anni dopo in mano c’hai comunque una cartaccia da butta’, pure se hai giocato a fa’ la statuetta di cera».
Resta, alla fine delle sei puntate che si divorano velocemente in poco più di un’ora e mezza, la sensazione di aver visto un gioiello di profonda umanità, di intelligente ironia, di poetica, esistenziale, semplice descrizione dell’animo umano e delle sue fragilità. Della fatica di muoverci o meno “lungo quei bordi” consigliati.
Come se questo ci potesse preservare, destinandoci a non soffrire o ad avere tutto più facile mentre, invece, la vita sorprende, devia da quei bordi e restano le nostre scelte. Quelle che abbiamo deciso di non vivere e che, comunque, ci piombano addosso lo stesso.
– È successo, è caduto come una pera cotta. L’hanno visto tutti
– Ma si è fatto male?
– Un po’, ma poi passa!
– Ma gli esce il sangue dal ginocchio??
– Un pochino, ma il giorno dopo si sta già facendo la cicatrice!
– Alice… Ma la cicatrice quando passa?”
– La cicatrice non passa, è come una medaglia che nessuno ti può portare via. Così, quando Zeta è grande e ormai il principe non gli fa più paura, si ricorda che ha vissuto, che ha fatto tante avventure. Che è caduto e si è rialzato.
– Ma perché non passa?
– Perché è una cicatrice, se andava via con l’acqua era un trasferello. È una cosa che fa paura, ma è anche una cosa bella: è la vita.
Ecco, il segreto della meraviglia di un lavoro come “Strappare lungo i bordi” è soprattutto in questo. Nella perfetta semplicità di metafore così. Di quando ci sentiamo «Cintura nera di come si schiva la vita», di quando si va lenti perché pensiamo che basti strappare lungo i bordi per far andare tutto bene. Una scrittura come flusso di coscienza trasformato in animazione. Salvifica nel momento in cui ci ricorda che in fin dei conti siamo solo «Fili d’erba in un grande prato» e che, in fondo, è forse proprio questa singolare irrilevanza che ci può rendere liberi di scegliere di essere semplicemente e pienamente noi stessi.