21 novembre 2023

The Killer, Fassbender è il ninja triste e solitario di David Fincher

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The Killer sbarca su Netflix: l’ultima fatica del pluripremiato regista David Fincher racconta la storia di un killer freddo, spietato, anonimo e, finalmente, umano

Immaginate di prendere un treno, uno qualsiasi. Binario 2, direzione, orario. Aspettate quei 15 minuti, il treno arriva e voi salite. Poche stazioni e vi accorgete che la direzione è quella sbagliata. State tornando indietro. Strano, la voce in stazione sembrava aver annunciato il vostro treno. Allora scendete, guardate gli orari sullo megaschermo per la via opposta. 12 minuti. Aspettate, aspettate, aspettate, niente. Cercate sul foglio orario in bacheca, l’orario corrisponde. Arriva un treno ma ha un’altra destinazione. Aspettate ancora. Cosa sta succedendo? Qualcosa di impensabile. C’è una disconnessione tra voi e il sistema ferroviario. Anzi, tra voi e il sistema. E in una società ultramoderna come la nostra, dove anche i killer sono parte di un ingranaggio essenziale, una orrida necessità, può succedere che il meccanismo in cui agiscono si incrini, che il percorso devi dalla sua guida. E quali sono le conseguenze?

The Killer, still

Questa, in controluce, l’idea del regista premio Oscar, Leone d’Oro, Golden Globe, premi Emmy, Grammy e Hugo, David Fincher. Classe 1962, creatore di capolavori che hanno segnato più generazioni, come Sev7n, Fight Club, Gone girl, The Social Network, ma anche stabilito nuovi orizzonti nell’entertainment digitale, con le serie tv House of Cards, Mindhunter, Love, Death & Robot. Insomma non capiremmo senso e direzione di tale settore culturale senza porvi al centro l’arte e la personalità di David Fincher.

È da qui che bisogna partire per provare a capire il suo ultimo lavoro, The Killer, riadattamento in chiave Netflix della graphic novel Le Tueur, scritta da Matz ed illustrata da Luc Jacamon dal 1998 al 2014. E che soprattutto molti fan della prima ora hanno rigettato.

Ci si aspetta sempre tanto da Fincher, troppo forse. Come è successo a una delle sue ultime creatura, Mindhunter. 80 milioni di budget per 4 stagioni (solo due realizzate) per la serie crime cult dedicata all’unità impegnata nello studio e nella cattura dei serial killer americani degli anni ‘70. La richiesta è sempre la stessa per Fincher: purezza formale, intreccio, innovazioni tecniche, narrative, registiche, attori di grido ma, soprattutto, tanto stile e rule of cool. Perfezione insomma. Risultato? Chiusura prematura perché «I dollari non erano quanto i bulbi oculari». E quindi? Quindi si cambia.

The Killer, still

Un killer senza nome (un Micheal Fassbender invecchiato benissimo), appostato in un’anonima stanza commette un (banale) errore mancando con il proprio fucile di precisione il bersaglio, un ricco uomo di mezza età che si intrattiene nelle stanze di un grand hotel parigino. Sfumata l’esecuzione, il “sistema” che gli ha commissionato l’omicidio mette in funzione un meccanismo di rappresaglia automatico e letale. La compagna del killer infatti, che vive nella Repubblica Dominicana, viene aggredita e torturata per fornire informazioni sul suo conto e per neutralizzarlo. Al fine di “ripulire tutto”. Ma anche questa misura fallisce miseramente, perché la ragazza riesce a scappare e a raccontare cosa è successo al killer che “torna nella sua abitazione” (prima regola del killer in fuga, mai tornare). Inizia così un viaggio a ritroso del killer, una caccia all’uomo per risalire ai propri sicari e ai rispettivi mandanti.

Una trama considerata da molti troppo semplice, poco incisiva, anzi algida, piatta, circolare. Non è Fincher.  «Io e Andy (Andrew Kevin Walker, co-sceneggiatore anche di Se7en) non volevamo creare un labirinto intricato. Volevamo solo tirare una freccia: qualcosa che vola dritto in una direzione e colpisce un bersaglio». La parole di Fincher sono chiare, definitorie sulle aspettative che in genere suscitano le sue pellicole. Ma appaiono singolari, per uno che è universalmente riconosciuto come il maestro dell’intrigo, del thriller psicologico, del noir paranoide e bestiale, in grado di farci sprofondare negli abissi della mente (Zodiac, Gone Girl, The Girl with the Dragon Tattoo) ma anche di dissezionare le viscere, i gangli oscuri delle dinamiche sociali e antropologiche che alimentano le nostre angosce più profonde (The Social Network, Fight Club).

Niente di tutto questo, in un film che si srotola lentamente ma inesorabilmente verso un finale poco prevedibile ma tutto sommato in linea con il basso voltaggio emotivo di tutti i 118 minuti. In realtà è difficile pure rimanere in sintonia sulla storyline, quando durante la visione sia ha la continua sensazione del già visto, del rivissuto: Collateral (2004) in primis, con un Fassbender degno sparring del miglior Tom Cruise del decennio. Il Giorno dello Sciacallo (1973), per la meticolosa, maniacale e paranoide cura del particolare, dell’oggetto, del movimento, dell’avvistamento, dell’osservazione, del vestiario, del corpo. Ma soprattutto Ghost Dog – Il Codice del Samurai del 1999 nel (fallito) tentativo di replicare quel dialogo interiore, masticato, rivissuto dal misterioso sicario della mafia interpretato da un fenomenale Forest Whitaker, che vive e “lavora” nel New Jersey seguendo le regole di un antico codice samurai (l’Hagakure del XVIII secolo).

«Attieniti al tuo piano. Anticipa, non improvvisare. Non fidarti di nessuno. Non cedere mai un vantaggio. Combatti solo le battaglie per cui sei pagato». Concetti pallidi rispetto alla «Decisione in 7 respiri», alla «Forma come vuoto», o alla forza di «Un’ultima azione», quella dopo la decapitazione del samurai che lo pone oltre la morte, immortale. La off voice di Fassbender assume invece i toni di una cantilena stanca, svuotata di senso, come una preghiera, un rituale quasi per darsi coraggio.

In fondo, il profilo del Killer non riesce nemmeno a incarnare (come qualcuno ha pure suggerito) lo Zeitgeist del tempo, quel prototipo di lavoratore-macchina, prodotto di un sistema turbocapitalista nichilista freddo e asettico. È vero che Fassbender durante tutto il film naviga in una specie di spazio fisico infinito, liscio, universale, dove (non) luoghi come la Repubblica Dominicana, New Orleans, la Florida, New York e Chicago si mostrano tutti come omogenei perché totalmente rivestiti non da landscape caratteristici ma da codici, QRcode, chapta, password, account, check in e check out uniformi che regolano qualunque snodo (abitazioni, stazioni, strade, porte, auto, lucchetti, stanze, depositi, conti, cassette etc) senza la necessità di interagire con altri individui.

The Killer, still

Eppure non veste swag (alla John Wick per dire), con quel cappello da pescatore, pantaloni slim color sabbia del Reno e camicie anonime. Usa soltanto la voce per comunicare, conserva schede dentate di vecchie agendine, scrive note a penna, usa più archivi impolverati che lockers Amazon e soprattutto ascolta tutto il tempo canzoni degli Smith e di Morrisey (How Soon is Now?, Bigmouth Strikes Again, The Queen Is Dead e I Know It’s Over) e non guida auto vintage fiammati, come le Ford Fairmont, Thunderbird,  Pinto, Maverick o il coupé Mustang II di Mindhunter ma anonime Toyota, Honda, Daewoo da noleggiare negli aeroporti, nelle coach station, utili per passare inosservati e anonimi fino all’insignificanza. Insomma, tramontato il barocchismo estetico intriso di quell’anima dark and dirty tipicamente americana, cosa rimane dell’epica cinematografica di David Fincher?

The Killer, backstage

Nulla, di quella roba proprio nulla. Ebbene siamo finiti dentro un meta-realismo gelido e atmosferico perfettamente ritratto dalla colonna sonora del duo Trent Reznor / Atticus Ross, che ha smesso di regalarci meravigliose melodie elettroniche per pianoforte (The Social Network, Mank ma anche Patriots day, Bird Box, Waves) in cambio di un background noise sperimentale, sordo e disinfettato, a prova di qualunque tampone di paraffina.

Tutto questo forse non ci porta da parte nessuna parte. Ma intanto libera spazio, incrostazioni, attese, isterie, fanatismi da Tyler-Durden-fanclub e apre ad altri scenari, nuovi e inediti. «Tutto quello che posso fare è andare avanti», rivela il regista. Da artista di razza, non si ferma, non si accontenta ma cerca altre strade.

The Killer, backstage

A dimostrazione che, forse, è proprio lì tutto il senso. In quell’errore del killer, in quella deviazione imprevista, in quel flusso che prende un’altra direzione, che disorienta, spezza e (dunque, finalmente) umanizza una società sempre più cibernetizzata, automatica e automatizzata. Artificiale e inumana. Ed è proprio un killer cyborg a ricordarcelo.

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