Quando, nel corso del film “Triangle of Sadness”, ultima fatica di Ruben Östlund, (già Palma d’oro a Cannes per “The Square” nel 2019 e premiato anche quest’anno alla kermesse francese), tutti i personaggi iniziano a vomitare per il mal di mare, nessuno nel cinema può veramente dirsi esente dal disagio. O dal rischio di emulazione. Non tutti sanno che il vomito ha dimensione sociale, può coinvolgere altri in una catena di rigetto, trascinare come un goal allo stadio, come il panico della folla. Perdi il controllo, non sei più tu ai comandi. La sala del cinema infatti ha iniziato veramente a ondeggiare, le posate sembravano cadere a fianco delle poltroncine, come le sedie che sbattevano sul pavimento di moquette della nave, insieme ai piatti e ai vasi di cristallo. La vertigine provata è stata conturbante e, a tratti, insopportabile. Esattamente come la performance dell’uomo-scimmia che si aggira a petto nudo tra i tavoli durante una cena nel museo di “The Square”. È il gioco del regista, che ci ricorda come, in fondo, i nostri pensieri, le nostre sensazioni e reazioni fisiche sono sempre alla sua mercé, per tutta la durata dei suoi film.
“Triangle of Sadness”, film vincitore della Palma d’oro 2022, è un lavoro diverso, opposto, per certi versi, alle vicende del curatore Christian di “The Square”, prisma deformante e personalissimo di un mondo, quello dell’arte contemporanea, ritratto in modo speculativo, verboso e ineffabile fino all’inconsistenza. Questa è invece un’opera più corale, con al centro due solisti, i due protagonisti, il fotomodello Carl (Harris Dickinson) e l’influncer Yaya (Charlbi Dean), catapultati dai set delle sfilate di alta moda a una vacanza omaggio su un prestigioso panfilo con ospiti ricchissimi e capricciosi, trascinati dagli eventi fino a un (evitabilissimo) esito rovinoso.
Una piccola storia universale in compendio e ritorno. Si affrontano in modo irriverente e cutaneo temi come l’uguaglianza di genere (Carl e Yaya capitolo I), la lotta di classe (lo Yacht, capitolo II), la lotta per il potere (la Spiaggia, Capitolo III), se non ponendo premesse per poi sovvertirle come in un gioco di costruzioni, come in Shanghai o in Jenga. Ma se per molti osservatori il gioco del film è stato solo al massacro, senza uno scampolo di insegnamento, con eventi e situazioni farciti di comicità e cattiveria gratuita, senza una minima evoluzione dei personaggi (se non un capovolgimento di posizioni) è proprio perché Östlund non si è occupato di questo.
È stato come un gioco di società, si osservano gli eventi dall’alto per cui è difficile empatizzare, e non perché grotteschi ma perché troppo distanti, troppo schematici. Sono pattern comportamentali: Yaya, la giovane influncer indaffarata e approfittatrice, Carl, il bel modello dai buoni sentimenti, schiacciato da un mondo arrivista e indifferente, Vicki, l’ossequiosa direttrice del personale (non importa se di una grande compagnia di navigazione o di una addetta alle pulizie capace di tenere in piedi un campo di fortuna su un’isola deserta), Dimitrij, l’oligarca russo che ha ancora qualche scampolo di lucidità seppur nella propria, totale insensibilità sociale. O Therese, la donna tedesca disabile e afasica capace solamente di pronunciare le parole “in den Wolken”, ovvero “tra le nuvole”. Un po’ come la nostra condizione di spettatori al cinema del mondo: isolati e costretti a reagire ai vorticosi eventi con qualcosa che è poco più di un innocuo vagito.
E sopra tutti, il capitano Thomas Smith, un fantastico e troppo breve Woody Harrelson, che nel meccanismo östlundiano funge da vite allentata, da deus ex machina al contrario, che infligge il momento perfettamente inadatto, un giorno di tempesta, al “Captain Dinner”, pomposo evento tanto atteso dagli ospiti perché di rara eleganza marinara, marziale ma, alla fine, di totale sconquasso intestinale. Già sbronzo di suo, unico a rimanere in piedi perché già nauseato dalla sua vita servile e impotente, il Capitano Harrelson chiama tutti (anche noi) a soffrire non un semplice mal di mare condito da cibo gourmet ma a un supremo atto di lucidità, di profonda adesione involontaria a «Qualcosa che entra a far parte di noi, violando in qualche modo la nostra identità». La totale perdita di controllo della situazione e dunque del Sé. Una lavanda gastrica spirituale, preludio a una tabula rasa generale, che apre a nuovi scenari e a nuove possibilità.
Ma lo stesso Östlund è consapevole che il suo non è quel disaster movie elegante e smaltato che promette la parità tra i sessi, il riemergere della lotta di classe o la sfida finale tra cacciatori e raccoglitori. In fondo, è soltanto una raffinata commedia degli errori post litteram, una casa delle burle poco sociali e per nulla esistenziali. La rabbia e l’odio distruttrici delle classi inferiori, simboleggiati dalla fuoriuscita delle acque nere per tutto il Grand Yacht ormai alla deriva, in fondo non sono altro che una risata sguaiata ai danni del miliardario di turno, che trova la sua Ferrari rigata in un parcheggio, che magari perde in mare il suo Rolex da 50K dopo un tuffo sbilenco o che straccia la fiancata del suo 25 metri a vela dopo una manovra maldestra in porto. Noi ridiamo senza freni, la servitù (nessun altro che Noi in bermuda e polo bianca) trattiene la risata ma tutti aspettiamo lo scatto d’ira del potente. E solo per deriderlo ancora. Nient’altro.
Anche la terza parte, il naufragio, in fondo non è mica vero, è una boutade, uno scherzo del regista, più che del destino “nell’azzurro mare d’agosto”. Ci abbiamo creduto davvero solo con Robinson Crusoe, perché già con il Signore delle Mosche l’isola altro non era se non lo sfondo di lotte fratricide. Abbiamo iniziato ad annoiarci con “Castaway”, a crederci sempre meno con “The Beach” di Leo Di Caprio, a varcare insieme a Truman, stavolta colmi di speranza, la soglia della porticina dell’isola-studio televisivo. Fino a sfottere i naufraghi nei reality survival in stile Isola dei Famosi di questi anni.
Consapevole di questo (niente è rimasto da raccontare sulla solitudine e disperazione dell’homo sapiens) Östlund ha giocato tutto sulle pulsioni, scansando ogni messaggio o trama edificante. Decostruzione delle classi, decostruzione dei generi, decostruzione del potere, film politico, sociale, survival, grottesco, ironico, teen drama anche. L’opera di Östlund è moderna perché veloce, tagliata a tranche, sconnessa, non ci annoia un attimo, puro Zeitgeist nostrano. Mentre le serie tv dilatano all’inverosimile narrazioni e personaggi, hanno target e audience precisi, fette di pubblico divise per età, istruzione e livello economico, il regista svedese decide di schiacciare tutto, di ridurre tutto a poltiglia, di affastellare battute, scene e personaggi ai limiti dei reels di Instagram, delle clip di Tik Tok, all’insegna di una memificazione diffusa, sdoganata, finalmente approdata al rango del cinematografo. Come la bellissima scena del confronto tra il Capitano con l’oligarca russo Dimitrij, in cui ci si sfida a colpi di celebri massime socialiste e motti liberisti: un dissing in perfetto stile live stream su Twitch. Non è possibile infatti definire un pubblico per questo film, superficiale e geniale come una gif. È per tutti e per nessuno.
Il finale è così la sirena che annuncia la fine del gaming, del break, della simulazione. Non basta infatti una tempesta (o l’asteroide di “Don’t Look Up”) per fermare questa locomotiva impazzita, questo Mega Yacht senza nessuno ai comandi (come se poi nell’epoca di UAV, droni, Tesla, Taxi robot Google e Space X, ci fosse ancora bisogno di piloti al comando). Proprio quando Truman Burbank sale le scale e supera quella porticina nel cielo di cartone, ebbene, quello è proprio l’istante in cui si chiude il ‘900, con tutte le sue deliranti versioni del Controllo. Era ancora immaginabile sfuggire, andare oltre, come ancora immaginabile era un Occhio, il “regista Dio” Christof – Ed Harris, per quanto ormai fragile e cieco. Oggi non ci sono più quelle porte. Alla fine, Östlund ci sta dicendo proprio questo. Lo scherzo è finito e ora possiamo anche mettere a caricare il cellulare dietro ai divanetti del gazebo, perché a breve arriverà la cena indonesiana.
La Fondazione Pasquinelli di Milano ha ospitato una serata dedicata alla potenza trasformativa della poesia, unendo immaginazione, natura e vita…
Un nuovo record da Casa d’Aste Martini, a Sanremo, per l'importante vaso imperiale (dinastia Qing, marchio e periodo Qianlong). È…
Un viaggio tra le gallerie e gli spazi d’arte del centro storico di Roma, da Via Giulia al Portico di…
Roma Arte in Nuvola ha aperto le porte della sua quarta edizione con varie novità: diamo un’occhiata alla sezione Nuove…
Un anno di successi e riconoscimenti nell’arte contemporanea.
Doppio appuntamento, questa sera, alla Galleria d’Arte Ponti: apre la mostra La società “In Arte Libertas”, che proseguirà fino al…