Sono ormai trascorsi 20 anni dall’uscita di Y tu mamá también, quarto lungometraggio scritto e diretto da Alfonso Cuarón. Nonostante un grande successo al botteghino e l’assegnazione del Premio Mastroianni per la miglior interpretazione emergente maschile durante la 58. Mostra del Cinema di Venezia, il film venne stroncato dalla maggior parte dei critici messicani, mentre in Italia passò sostanzialmente in sordina. Far rientrare il film nel genere del road movie, per quanto si tratti della principale etichetta che al film viene data, appare piuttosto riduttivo, date le implicazioni sociali che la storia porta con sé.
A una lettura superficiale, la trama non lascia dubbi: Julio Zapata (Gael García Bernal) e Tenoch Iturbide (Diego Luna) sono due migliori amici in attesa di iniziare l’università; dopo aver salutato le rispettive ragazze, partite per il viaggio di maturità, si ritrovano a trascorrere insieme il resto dell’estate. L’incontro con Luisa (Maribel Verdú), una donna spagnola molto più grande di loro, li porta a fare a gara per sedurla e le propongono un viaggio in macchina per visitare le spiagge più belle del Paese; osservando più da vicino la relazione che intercorre tra questi tre personaggi e il loro rapporto con il Messico, si possono individuare elementi di critica sociale che, a distanza di tempo, risultano comunque attualissimi.
Julio appartiene alla classe operaia, vive con la sorella e la madre – quest’ultima impiegata come segretaria negli uffici di una multinazionale (queste sono le informazioni fornite allo spettatore dalla voce narrante fuori campo). Tenoch, invece, è figlio di un sottosegretario di Stato, laureato in economia ad Harvard. La differenza tra le rispettive classi sociali di appartenenza viene esemplificata visivamente da un piano sequenza che “invade” la casa di Julio: siamo a Città del Messico e quello che si vede è un piccolo appartamento di tre stanze, con vista sui grattacieli. La nuova e moderna urbanistica della capitale messicana entra prepotentemente nella dimora delle classi meno abbienti e la stessa cosa non si può dire per casa di Tenoch: isolata dal caos della città, protetta da alte mura e decorata con grande sfarzo, la villa degli Iturbide rappresenta un rifugio e un posto sicuro per i due protagonisti.
Bastano pochi scorci di Città del Messico per capire che questa differenza abissale è una caratteristica che connota non soltanto il rapporto tra i protagonisti ma tutta la città. Per le strade regna il caos: la capitale messicana assume sembianze infernali, dove un minimo di attenzione e cura per il prossimo lascia il tempo che trova. I due, infatti, non si preoccupano neanche del perché si ritrovino bloccati nel traffico: è il narratore a spiegare che un muratore immigrato di Michoacán è appena stato investito. L’informazione aggiuntiva, che conferma l’indifferenza di questa città, è che post-mortem il corpo del povero lavoratore sia rimasto per quattro giorni all’obitorio, senza mai essere identificato.
Julio e Tenoch trascorrono l’estate vagando tra il country club di cui il padre di Tenoch è membro e svagandosi con l’erba fornita da un loro amico – almeno fino a che Luisa non accetta il loro invito e decide di prendere parte a questo fantomatico road trip del Messico. La proposta della donna di visitare Puerto Escondido fa esplodere i due in una risata isterica: Tenoch la etichetta come una località balenare per «Yuppie e finti surfisti» – salvo poi millantare l’esistenza di un’altra località (fittizia), chiamata Boca del Cielo, Bocca del Cielo. I tre partono alla volta di una spiaggia immaginaria, sostando via via nell’entroterra messicano, mentre Julio e Tenoch escogitano un metodo per far sì che Luisa non arrivi mai a scoprire che il luogo, in realtà, non esiste.
La macchina su cui i tre sono a bordo percorre varie strade isolate, fino a passare vicino a un piccolo villaggio, chiamato Tepelmeme. Tenoch nota i cartelli stradali e le indicazioni per questa località ma resta in silenzio e fa finta di niente. Il narratore spiega che si tratta del paese originario di Leodegaria, detta Leo, la tata che si è presa cura di Tenoch fin dalla nascita. Il villaggio si vede solo in lontananza, come a voler riproporre, su scala maggiore e “fisica” la stessa lontananza abissale che separa Tenoch da Leodegaria dal punto di vista sociale. Quella sociale è però un tipo di distanza che il giovane ha acquisito con il tempo, maturando una sorta di coscienza di classe “al contrario”, dato che da piccolo trascorreva così tanto tempo con la tata da arrivare a chiamarla mamma, mentre adesso arriva quasi a vergognarsi di questo rapporto. L’imbarazzo di Tenoch è, con ogni probabilità, un sentimento che non lo avrebbe attraversato se non fosse nato in un contesto sociale contraddistinto dal privilegio economico e sociale.
Mentre il trio si allontana progressivamente da Città del Messico, si fanno sempre più chiare le dinamiche relazionali e, nel caso di Tenoch – l’unico proveniente da una famiglia ricchissima –, emerge tutto il suo classismo interiorizzato. Il procedimento che porta i personaggi ad abbandonare sempre più le inibizioni sociali e i “confini” di classe che nella capitale erano così vividi avviene in parallelo con la scoperta di nuove località dove si sente sempre meno la mano dell’uomo. Se nello scenario iniziale, a Città del Messico, domina un’architettura moderna e profondamente artificiale, lo scenario cambia in modo graduale fino ad arrivare a uno stato di natura incontaminata, dove ancora l’uomo non è arrivato a costruire (o a distruggere) niente.
Prima che Luisa si accorga dell’inganno, Julio ferma la macchina in una spiaggia che rinomina “Boca del Cielo”. A questa altezza del viaggio, i tre si sono completamente liberati di tutte le convenzioni sociali in cui erano incastrati a inizio film, quando ancora si trovavano in città. Questo porta il trio a litigare violentemente – non mancano da parte dei due ragazzi insulti omofobi e classisti – per poi lasciare da parte tutte le animosità e fare pace. La vicinanza a questo luogo incontaminato favorisce un ritorno allo stato di natura, dove la società (machista, classista e filostatunitense del Messico dei primi anni duemila) non è ancora arrivata.
L’epilogo della storia non trova luogo su questa spiaggia, dove i due, incitati in certa misura dal comportamento di Luisa, che già ha capito la situazione, si lasciano andare a una notte di amore, con la complicità dell’alcool e la certezza di trovarsi al riparo da sguardi indiscreti. Quello che Julio e Tenoch, all’alba dell’indomani, considerano un momento di annebbiamento da cancellare, è ovviamente l’opposto: lontani da tutte quelle sovrastrutture omofobe e machiste – pane quotidiano degli ambienti in cui sono cresciuti – possono finalmente esprimersi per ciò che sono.
La notte alla Boca del Cielo, da cui Luisa si è sapientemente tenuta lontana, non rappresenta altro che un risveglio, per quanto rapidamente represso e soffocato dai due. Il viaggio non finisce nel momento in cui i protagonisti ritornano nella capitale, con una chiusura ad anello della storia, ma nel momento in cui i due ripensano a ciò che hanno fatto con il filtro di una società che ancora fatica ad accettare un amore omosessuale. Le sovrastrutture in cui sono immersi nella vita di tutti i giorni finiscono per farsi sentire anche a centinaia di chilometri da Città del Messico e questo fa svanire tutto il senso di libertà dato dall’ambiente naturale circostante. Questa sorta di presa di coscienza di Julio e Tenoch a chiedersi se tutte le istituzioni e le convenzioni che l’uomo da sempre ha creato per facilitare (o rendere semplicistica fino all’inverosimile?) la propria vita non finiscano per avere l’effetto esattamente opposto e incasellare i protagonisti in categorie sociali da cui difficilmente riescono a uscirne fuori, reprimendo ciò che veramente sono.
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