La Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali è un istituto internazionale per la formazione, la ricerca e gli studi avanzati nell’ambito delle competenze del Ministero della cultura.
Nata con la missione di valorizzare e promuovere le competenze dei professionisti impegnati nella cura e gestione del patrimonio e delle attività culturali, la Fondazione promuove il dialogo tra discipline, competenze, soggetti attraverso attività di formazione e ricerca che, reciprocamente, si alimentano e aggiornano. Abbiamo intervistato Alessandra Vittorini, Direttore Fondazione Scuola Beni Attività Culturali, per conoscere meglio questa realtà.
Partiamo con una domanda tecnica. Quali analisi (e anche criticità) del sistema hanno portato alla nascita della Fondazione Scuola Beni Attività Culturali nel 2015?
Le origini sono da riferirsi allo scenario della riforma del 2014, che ha aperto fronti inesplorati all’interno del nostro Ministero. La riforma stabilizzava una serie di percorsi già attuati precedentemente: una svolta importante c’è stata nel 2001, quando all’interno del nome del Ministero è entrata la parola attività con gli annessi di creatività, contemporaneità, moda e design. il ripensamento profondo ha riguardato redistribuzioni di competenze e organizzazioni. La Fondazione si situa in questo alveo di pensiero ed è stata creata con l’obiettivo di portare avanti un compito di formazione e di ricerca, con un respiro internazionale.
Ecco, ci parli meglio di questi due ultimi aspetti: formazione e ricerca
Parto dal presupposto che la formazione universitaria è imprescindibile; la Fondazione opera un potenziamento di esso in termini di trasversalità, fortemente orientato verso chi lavora nel settore. Anche l’attività di ricerca della Fondazione parte dagli stessi presupposti: costituire un pool sul campo che porti avanti ricerche che abbiano concrete ricadute sull’ecosistema del patrimonio culturale.
La Fondazione si impegna dunque a inserire sul mercato personale sempre più formato. Sarà progressivamente adeguato anche alla domanda?
La Fondazione ha all’attivo un bando (lanciato il 7 dicembre e con scadenza il 28), per l’ammissione al corso-concorso di 75 allievi che porterà al reclutamento di 50 dirigenti di seconda fascia. Oltre al concorso per funzionari del 2018, l’ultimo atto di reclutamento di dirigenti per il Ministero risaliva al 2007. Ma la più grande novità è proprio il suo trattarsi di un corso-concorso e per cui, come Fondazione, siamo stati chiamati a gestire questa particolare “formazione-selezione” nella fase iniziale. È un inedito per il Ministero della cultura.
Delocalizzazione. Dai musei, è un processo che sta interessando anche le opportunità formative. Nel 2022, 2000 giovani sardi under 35 saranno coinvolti nel progetto “Formazione Cultura Under 35 Sardegna”. Ce ne parla meglio?
È un progetto di cui siamo entusiasti e che è nato prima del PNNR, grazie a una convergenza di più fattori. Il primo è stata la disponibilità di fondi per la formazione e la volontà della Regione Sardegna di destinarli a questa fascia d’età (infatti, la formazione sarà totalmente gratuita). Detto questo, con “Formazione Cultura Under 35 Sardegna” (2) abbiamo avuto la possibilità di mettere sul campo un tema che è molto nelle nostre corde. Infatti, questo progetto ha l’ambizione di uscire dai confini del Ministero e dei suoi operatori, intercettando un pubblico più ampio: parlo di laureati del settore (o studenti), ma anche di comunità e impiegati amministrativi del territorio. L’obiettivo è definito: ragionare più in termini di ecosistema che di specialismi, ponendo le basi per costruire un linguaggio operativo comune. È un test molto importante e che, per questo, potrebbe essere replicabile.
È qualcosa che guarda un po’ al modello francese, che da sempre ha investito molto su una forte formazione di funzionari sul territorio…
Su questo non c’è dubbio, la Francia ha una tradizione molto forte in merito. Ma anche il modello italiano si pone sempre di più l’obiettivo di entrare in modo articolato nei territori: il Ministero infatti ha compiti di tutela, ma le competenze per gestire il patrimonio locale sono decentrate. Per cui organi centrali e regioni devono parlarsi il più possibile. Come? Agendo sulle capacità trasformativa dei territori, dotandoli di risorse operative che abbiano competenze specifiche (ad esempio, nella gestione dei fondi europei). Il PNNR è l’elemento deflagrante di tutto questo: distribuisce fondi e possibilità di gestirli a platee ampie con tempi, regole e criteri serrati. Questo vuol dire dotare ogni luogo di competenze e, dopo il 2026, rimarrà come investimento sulle persone. Non dimentichiamo che i territori (e vale soprattutto per l’Italia) sono i “contenitori” del patrimonio culturale.
Al termine di un’attività formativa come quella che partirà a breve in Sardegna, sono previsti anche tirocini e opportunità di stage?
Per quanto riguarda la Sardegna, è un po’ prematuro parlare di stage perché le attività formative saranno delineate su chi parteciperà alla call (se ci sarà una maggioranza di amministrativi, o di giovani studenti o laureati). Nelle altre attività messe in campo dalla Fondazione, il tema dell’esperienza sul campo è centrale. Ad esempio, la borsa di studio del primo ciclo del “Corso Scuola del Patrimonio” (per 17 allievi) prevedeva un anno di formazione in aula, alternato a un’esperienza sul campo. Ciò che è più importante è che i partecipanti, al termine del loro internship, hanno presentato un progetto di ricerca applicata che ci è utile per mettere a fuoco gli sviluppi dei prossimi programmi formativi. Lo stesso corso-concorso per dirigenti, prevedrà un periodo di attività pratica in organi centrali e periferici del Ministero.
La Fondazione è molto attiva sui temi del cambiamento climatico e sui suoi effetti sul patrimonio culturale. In base alle vostre osservazioni, quali sono le professionalità in campo culturale di cui non potremmo fare a meno nel futuro?
Rifuggirei da una lettura verticale e specialistica, che non è la nostra. A noi interessa più fornire strumenti per un dialogo trasversale. È quello che, ad esempio, abbiamo cercato di portare avanti nel 2021 con il ciclo di seminari “Le Bussole”, ideato con l’obiettivo di misurare in che modo e misura l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile possa riguardare la pratica quotidiana dei professionisti del patrimonio culturale; i 18 incontri sono stati seguiti da oltre 2200 partecipanti. Sempre sul piano delle professioni, vorrei ricordare il progetto “Charter. The European cultural heritage skills alliance”, capitanato dall’Università di Barcellona e che raccoglie 47 partner europei con l’obiettivo di una mappatura dei programmi di formazione dei professionisti, per elaborare percorsi e ruoli omogenei.
Lei è stata soprintendente a L’Aquila, coordinando il progetto di restauro della Basilica di Collemaggio, iniziativa che ha vinto l’European Heritage Award 2020. Cosa porta con sé di questa esperienza?
Il restauro della Basilica di Collemaggio è stato un progetto che ha visto coinvolti soggetti molto diversi (Ministero, Soprintendenza, Comune e Diocesi de L’Aquila), insieme a un gruppo tecnico scientifico di tre atenei (Politecnico di Milano, Università de L’Aquila, Sapienza). Nei due anni, il lavoro è stato portato avanti cercando di assicurare da una parte la possibilità di rientro e di vita in città e nella Basilica delle persone, dall’altro la tutela archeologica. È stato uno di quei casi in cui ho potuto testare sul campo che lo specialismo è un ingrediente di base, importante sì, ma deve essere arricchito con opportunità fornite da competenze e capacità diverse.
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