AL CINEMA

di - 4 Febbraio 2016
Tarantino fa di nuovo centro, col suo The Hateful Eight. Un altro grande film, dopo Django Enchained, ambientato nel West: contesto ideale per riflettere sull’America di ieri e di oggi, sempre attraverso il Tarantino Style. Un’avventura dentro una diligenza che corre sballonzolando nelle innevate montagne del Wyoming, superbamente fotografate da Robert Richardson e proiettate in Ultra Panavision 70 Paramount (una tecnica oggi desueta ma caratteristica del film americano degli anni d’oro) che prosegue dentro la “Merceria di Minnie”, una sorta di baita di legno dove si svolgono i due terzi del film. Qui, al riparo della furia degli elementi, Tarantino ambienta il suo avvincente plot, che ha molti punti in comune con i gialli di Agatha Christie (penso soprattutto a Dieci Piccoli Indiani) grazie all’incredibile bravura degli interpreti, uno più intenso e coinvolgente dell’altro.
Un’attenzione maniacale ai dettagli, un perfetto equilibrio tra azione e conversazione, una precisa costruzione di ogni singolo personaggio, dal cacciatore di taglie John Ruth alla sua preda Daisy Domergue, dall’improbabile becchino Oswaldo Mobray al Maggiore Marquis Warren, detentore di una lettera personale firmata addirittura dal presidente Lincoln.

Ma al di là della trama, che dall’arrivo alla merceria si fa avvincente grazie ad una serie di colpi di scena, ancora una volta Tarantino dimostra di conoscere perfettamente l’arte del suo Paese: se in Django le citazioni toccavano soprattutto l’Ottocento, qui l’attenzione è rivolta principalmente agli artisti losangelini contemporanei, primo tra tutti Paul McCarthy ed in particolare alla sua installazione
Yahoo Town (1996) , ambientata in una capanna del West con tanto di pistoleri seminudi. I critici cinematografici più attenti non hanno sottolineato il fatto che Tarantino attinge soprattutto a McCarthy e al mood di Helter Skelter, la terribile profezia basata sull’omonima canzone dei Beatles e lanciata da Charles Manson, l’assassino di Sharon Tate, e celebrato nel mondo dell’arte dalla mostra omonima, curata da Paul Schimmel nel 1992 al LACMA di Los Angeles, dove artisti del calibro di Mike Kelley, Raymond Pettibon, Charles Ray e lo stesso McCarthy esordirono sulla scena internazionale. Del resto, non è un caso che il 19 aprile 2014 Tarantino abbia organizzato un reading dal vivo della sceneggiatura proprio al LACMA, e rispetto al personaggio di Daisy Domergue il regista abbia dichiarato di essersi ispirato a Susan Atkins, la sanguinaria assassina che fece parte della famiglia di Charles Manson e partecipò all’uccisione di otto persone in California, nell’estate del 1969.

Sangue, vomito, teste che schizzano poltiglia cerebrale ovunque: l’ultima parte del film è un omaggio allo stile dei B-movies, quasi a voler distruggere la perfezione immacolata del paesaggio innevato del Wyoming. Del resto, la volontà di superare il pensiero politically correct è esplicito anche dalla sceneggiatura, dove fioccano insulti tra neri (che qui sono detti niggers, cioè negri) e bianchi, in perfetto clima post guerra di Secessione. Una saga sull’America di ieri e di oggi attraverso la demolizione dei suoi stereotipi è l’ultimo capolavoro di un regista geniale, forse tra i più interessanti e sorprendenti del nostro tempo.

Ludovico Pratesi

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