André-Adolphe Disdéri e la fotografia pittorialista

di - 13 Marzo 2003

Con la scoperta della tecnica del collodio umido, una tecnica che offriva una maggiore qualità, economicità e facilità d’uso, l’immagine fotografica iniziò quel processo di massificazione che la contraddistinguerà fino ai giorni nostri. La riproduzione aveva però poco a vedere con la realtà, la referenzialità era infatti spesso “corrotta” nel ritratto commerciale (al di fuori degli atelier, peraltro diffusi capillarmente, la fotografia era ancora appannaggio di pochi facoltosi dilettanti), dove si tendeva a ricostruire un’immagine del cliente in termini adulatori: un’immagine confacente alle sue aspettative. Il fotografo più noto in questo genere di operazioni, ma con peculiarità che vanno al di là della routine della stragrande maggioranza dei fotografi dell’epoca, fu il francese di origine italiana André-Adolphe Disdéri (1819-1890). Disdéri (avviatosi come pittore era poi approdato alla fotografia) inscenava e riprendeva, nelle sue Cartes de visite gli stereotipi sociali della sua epoca, utilizzando un trattamento che potremmo definire teatrale e quindi con risultati irreali. La costruzione dell’immagine dipendeva soprattuto dal “profilmico”, cioè da ciò che veniva allestito di fronte all’obbiettivo; il contrario praticamente di quanto avverrà col pittorialismo, soprattutto quello di scuola francese, dove le immagini sembrano finte (formalmente assomigliano a dei dipinti) in virtù di manipolazioni di ordine tecnico (interventi sul negativo o sulla stampa). Paradossalmente invece, le fotografie di Disdéri sembrano vere pur riproducendo una finzione scenica. E proprio l’ambiguità dell’opera di Disdéri è stata la causa della rivalutazione del suo lavoro in quest’ultimo ventennio. Claudio Marra spiega così questa situazione: Se, come afferma Deitch, nella definizione dell’identità oggi “si avverte la sensazione che ognuno possa facilmente costruire il nuovo cui anela”, occorre riconoscere che la fotografia, e in special modo la ritrattistica, a fronte di tutte le pulsioni di verità che ha sempre sollecitato, si è fatta pure straordinaria interprete di quella “fuga da sé” che non può essere considerata un desiderio esclusivo dell’oggi. Si pensi come, a soli vent’anni dall’invenzione della fotografia, Disdéri, provasse forte imbarazzo, come ammette nel suo trattato “L’art de la photographie” (1862), di fronte all’atteggiamento suscitato nei suoi clienti da quel nuovo strumento: “L’apparecchio fotografico, anziché indurre i soggetti a mettere allo scoperto la propria personalità, sembra eccitare in loro, al contrario, l’impulso a nascondersi, a travestirsi, a deidentificarsi. Il modello cerca di assomigliare a qualcun altro”. Si può notare come la possibilità di dar vita a un io non più condizionato, per stare alle parole di Deitch, da motivi fisici e psicologici, abbia alle proprie spalle la clonazione in altre identità permessa dalla ritrattistica fotografica (Marra, 1999). In questo stesso periodo altri fotografi, per lo più dilettanti, si adoperarono per elevare il nuovo mezzo ad una ambita dignità artistica. A tal fine non fu però sufficiente abbandonare gli stereotipi ormai massificati, in favore di soggetti più meritevoli; il problema maggiore non era il “cosa” riprodurre, ma soprattutto il “come”. Così, volendo aderire allo statuto artistico dell’epoca (la manualità virtuosa), la fotografia si vide costretta, in un certo senso, a rinnegare la propria natura moderna che gli derivava dall’eredità genetica lasciatagli dai procedimenti ottico-matematici rinascimentali e chimico-culturali ottocenteschi. Figlia legittima della pittura rinascimentale-impressionistica, nata dopo quattro secoli di gestazione, la fotografia del periodo possedeva infatti a livello costitutivo potenzialità naturalistiche automatiche (l’immagine, perfetta nelle sue proporzioni e nella sua prospettiva, compare sulla lastra come per germinazione spontanea). Un simile traguardo era in quei tempi auspicabile per la scienza non certo per l’arte che richiedeva virtù artigianali e nel prossimo approfondimento vedremo come i fotografi dell’epoca aggireranno quest’ostacolo grazie al “Pittorialismo”.

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roberto maggiori

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